Il secondo governo Conte è nato meno di un mese fa, promosso dal Pd in nome di una emergenza democratica, per evitare cioè che Matteo Salvini ottenesse davvero i «pieni poteri», con la concreta possibilità – grazie alla legge elettorale, alla divisione degli avversari e alla subordinazione degli eventuali alleati – di raggiungere una maggioranza tale da potersi eleggere da solo (o quasi) il Capo dello stato, e persino modificare a piacimento la Costituzione. Ma anche in nome di una emergenza finanziaria, per evitare cioè che tra l’aumento dello spread e quello dell’Iva l’Italia finisse davvero fuori dall’Europa (e dalle economie avanzate in generale). Senza dimenticare l’emergenza sociale e civile, che imponeva, sempre a giudizio del Partito democratico, di rimuovere immediatamente dal ministero dell’Interno un leader politico che usava quella tribuna per diffondere odio e allarme nei confronti degli immigrati, oltre che per promuovere misure illiberali come i vari decreti sicurezza.
Un mese dopo, l’unico obiettivo su cui i democratici – compresi gli ex democratici ora passati in Italia viva – si dimostrano tuttora fermamente decisi a non transigere sembra essere l’aumento dell’Iva. Dopo tanti alti dibattiti sulla possibilità o meno di “romanizzare” i barbari – ammesso e non concesso che da una parte vi fossero davvero solo rudi invasori venuti da un mondo a parte, e dall’altra esponenti esemplari della civiltà greco-romana, versati nella filosofia aristotelica non meno che nella letteratura latina – l’impressione è che le cose siano andate al contrario, e siano stati cioè i nuovi venuti a “barbarizzare” i romani.
Fino a ieri il Partito democratico si era opposto con fermezza al taglio dei parlamentari, giudicandolo demagogico e pericoloso. Poi aveva accettato di votarlo a condizione di varare contestualmente una legge elettorale proporzionale, per evitare che la riduzione dei parlamentari unita agli effetti maggioritari della legge attuale producesse davvero il modello Papeete, consegnando al vincitore i super pieni poteri. Adesso il taglio dei parlamentari è già calendarizzato per il 7 ottobre, il Pd voterà a favore, mentre la legge proporzionale sembra che non sia più nemmeno così urgente, e anzi quasi quasi si può fare pure il maggioritario.
Stesso discorso sulla riforma che sospende la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, cui i democratici erano contrari, dicevano, perché un cittadino non può restare sotto inchiesta per sempre: la riforma resta, in cambio di un generico impegno ad accorciare i tempi dei processi. Stesso discorso sui decreti sicurezza, più volte difesi e rivendicati dal presidente del Consiglio in persona.
E se qualcuno nel Pd prova a rilanciare almeno lo ius culturae, ecco che a frenare è subito un sottosegretario dello stesso Partito democratico, Alessia Morani, che così interviene su Facebook: «Scrivo questo post con la consapevolezza che attirerò molte critiche ma anche con la convinzione di interpretare il “sentiment” della maggioranza delle persone che guardano con simpatia al nostro governo». E quindi, premesso che «lo ius culturae è un principio sacrosanto ed una legge di grande civiltà», ci mancherebbe, ma «riprendere ORA il dibattito sull’approvazione di questo provvedimento è un errore». E perché? Ma è ovvio: «Una legge di questo tipo deve essere approvata solo dopo avere dimostrato che c’è un modo efficace e diverso da quello di Salvini di governare i flussi migratori e di fare sul serio politiche di integrazione. Il paese è profondamente diviso sul tema dell’immigrazione e non basterà approvare una legge sullo ius culturae per eliminare le tossine del razzismo inoculate da Salvini». Insomma, conclude Morani, riparliamone tra un anno. Cioè mai.
Si potrebbero fare facili ironie sul “sentiment” interpretato da Morani, ma è chiaro che il problema è più profondo e radicale. Persino Matteo Renzi, in un’intervista al Foglio, e proprio parlando di giustizia, dice che i cinquestelle «sono maturati».
L’esempio più eclatante è però quello dell’Umbria, dove i candidati del Pd hanno dovuto sottoscrivere un accordo secondo cui in caso di passaggio ad altro gruppo si impegnano a pagare una penale di trentamila euro. Notizia che arriva a pochi giorni dall’ultima polemica sulle parole di Luigi Di Maio a proposito di vincolo di mandato. Proposta giustamente bocciata come incostituzionale e antidemocratica da tutto il Pd.
Le distinzioni causidiche avanzate dal commissario umbro Walter Verini al Fatto, se possibile, rendono il quadro ancora più fosco. Dice Verini: «La proposta dei cinquestelle viola la Costituzione. Il nostro è un documento interno al partito firmato liberamente dai candidati». Domanda: ma se uno non firmava, non si poteva candidare. Risposta: «Sì, è la condizione di una comunità…».
La prima condizione per stare in una comunità, però, dovrebbe essere il rispetto dei principi di quella comunità. E chi stabilisce se a violarli è il singolo che decide di lasciare il partito, o invece il gruppo dirigente con le sue scelte? Se domani Verini o chiunque altro dovesse decidere di allearsi con Casapound, la penale non dovrebbe pagarla lui, piuttosto che gli eventuali dissidenti?
Il problema di fondo che emerge da tutte queste discussioni, dal taglio dei parlamentari al vincolo di mandato, è che il Pd sembra avere assunto in blocco il punto di vista populista, secondo cui destra e sinistra non esistono, la politica è una professione inutile, fondata esclusivamente sul desiderio di arricchimento personale di chi la esercita, e dunque ogni altra preoccupazione circa pesi e contrappesi, equilibri del sistema e diritti in gioco è solo una scusa per chi vuole mantenere i privilegi della «casta», difendere il «trasformismo» e impedire il rinnovamento. Il problema è che la democrazia non muore quando gli eletti smettono di obbedire ai capipartito, ma quando, per compiacere i capi, smettono di obbedire alla propria coscienza.
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