Rimasta nel confortevole alloggio assegnatole quando era al governo nonostante al governo non sia più, l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta ha dato ieri molte spiegazioni che meritano attenzione, anzitutto per il loro valore politico-letterario, indipendentemente dagli accertamenti della procura militare (che ha aperto un fascicolo).
A dimostrazione della tesi si potrebbero citare mille perle, come l’impavido «Non credo proprio che si tratti di un privilegio perché io l’appartamento lo pago e lo pago pure abbastanza», dichiarato al Corriere della sera il giorno stesso in cui, ai microfoni di Radio Capital, precisa di sborsare ben «540 euro di affitto» (per 180 metri quadri, a Roma, in una zona «rinomata»); o il classico «è evidente che sono sotto attacco», seguito da una raffica mozzafiato di inquietanti interrogativi («È un attacco al presidente Conte? All’Aise? Al Movimento? Alla Link Campus, dove sono tornata a lavorare?»); o ancora la giustificazione che inevitabilmente dà il titolo all’intervista: «Ho una vita di relazioni».
Il punto centrale della sua linea difensiva, tuttavia, sta nella risposta alla domanda sul perché, possedendo già una casa nel quartiere Pigneto, dovesse averne anche una di servizio. Non poteva restarsene lì? «No – risponde Trenta – c’erano problemi di controllo e di sicurezza. In quella zona si spaccia droga e la strada non ha vie d’uscita». Chiaro? Vado a capo per lasciarvi il tempo di rifletterci su, e riprendere fiato.
Ricapitolando: sulle pagine del principale quotidiano del paese, con la nonchalance con cui voi rispondereste alla domanda «come va?», l’ex ministra della Difesa spiega che il motivo per cui aveva bisogno di un altro appartamento era che dove abitava lei si spacciava droga e c’erano conseguenti problemi di sicurezza. Un inconveniente che all’allora ministra, evidentemente, dev’essere sembrato un motivo ragionevole non già per chiamare la polizia, il sindaco di Roma, il presidente del Consiglio o l’esercito, allo scopo di cambiare la situazione del quartiere; bensì, semplicemente, per cambiare quartiere. Decisione ancora più significativa, considerando che l’ex ministra, il sindaco di Roma e il presidente del Consiglio erano e sono tuttora espressione dello stesso partito, nato e affermatosi proprio in nome della lotta contro i privilegi della «casta».
Da questo piccolo apologo si ricava dunque, prima di tutto, una certezza. E cioè che non è affatto vero che i cinquestelle abbiano capito prima e meglio di tutti le ragioni profonde della rabbia popolare e dell’indignazione contro i privilegi della «casta»: con le dichiarazioni di Elisabetta Trenta si potrebbe riempire un intero manuale su tutto quello che non si dovrebbe dire, mai e poi mai, in situazioni del genere. Dunque è assolutamente inutile inseguirli, imitarli o chiedere consiglio a loro per le ricette.
Dopo anni di isteria autodenigratoria, dopo aver tagliato a casaccio finanziamento ai partiti e numero dei parlamentari, piccoli odiosi privilegi e fondamentali garanzie costituzionali, almeno i politici del centrosinistra dovrebbero aver capito che nulla di tutto ciò è bastato né basterà mai, perché non è quello il punto. L’elettore arrabbiato non si arrabbia perché politici che si sono presentati come campioni della lotta ai privilegi ottengono case di lusso a prezzi stracciati, ma perché sotto casa sua si continua a spacciare indisturbati. Questo è il motivo per cui i cinquestelle perdono voti, e continueranno a perderli, nonostante tutti i tagli degli stipendi, dei rimborsi e dei parlamentari di cui possono vantarsi: perché non hanno proprio nient’altro di cui vantarsi. Il punto non è nemmeno che dopo essersi tagliati i compensi, raddoppino o triplichino le spese per i collaboratori (che comunque, intendiamoci, bello non è). Perché il problema di fondo non è quanto costano, ma quanto rendono. E come rendono le città e qualunque altra cosa si trovino ad amministrare, a cominciare da una Roma dove lo spaccio di droga è ormai l’unico servizio che funziona ventiquattro ore su ventiquattro, e non solo al Pigneto.
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