Nell’accusare la Francia di controllare ancora le ex colonie tramite il franco Cfa, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista hanno di certo detto delle inesattezze. Non è vero che Parigi usa le riserve degli Stati africani che usano la “moneta coloniale” per pagare il proprio debito. E non è vero che c’è un legame diretto tra le ondate migratorie verso l’Europa e i Paesi che utilizzano questa valuta. A questo proposito si può, però, sottolineare che non è dalle nazioni più povere del continente che proviene il grosso dei flussi diretti verso l’Europa.
E tra le nazioni più povere dell’Africa vi sono proprio quelle 14 che adottano il franco Cfa le quali, riporta l’Economist, dall’introduzione dell’euro hanno visto il reddito pro capite medio crescere dell’1,4% all’anno, contro il 2,5% registrato dal resto dell’Africa subsahariana. Il confronto con le ex colonie francesi che hanno adottato una valuta propria, come il Marocco o la Tunisia, è ancora più impietoso.
La stabilità monetaria è davvero un bene?
La ragione di questa disparità è intuitiva: essendo agganciate a una moneta forte come l’euro, queste nazioni, se da una parte non soffrono di instabilità monetaria, dall’altra non sono in grado di svalutare la propria moneta in modo tale da rendere competitive le proprie esportazioni. Se del franco Cfa beneficiano quindi gli investitori esteri, protetti da fluttuazioni improvvise, non altrettanto si può dire dei piccoli imprenditori e dei contadini, i cui prodotti non risultano concorrenziali sui mercati globali.
E ciò è particolarmente vero per il settore agricolo, che deve scontrarsi con i prezzi delle derrate europee, resi bassissimi dai generosi sussidi comunitari. Allo stesso modo, ha poco senso ribattere, come hanno fatto in molti, che “dal franco Cfa si può uscire liberamente”. L’obiezione avrebbe senso se fossimo di fronte a democrazie compiute, non a regimi spesso corrotti e dittatoriali che hanno a volte ragioni poco confessabili per mantenere rapporti cordiali con l’ex colonizzatore.
Quando chi tocca muore
È, peraltro, difficile ignorare come molti leader africani che avevano manifestato opposizione nei confronti di questo sistema abbiano fatto una pessima fine, come ricorda Pierluigi Magnaschi su Italia Oggi. Si va dal “padre della patria” burkinabè, Thomas Sankara, al colonnello libico Gheddafi. Il caso più clamoroso è forse quello di Sylvanus Olympio. “Primo presidente eletto della repubblica del Togo, ex colonia francese, si rifiutò di sottoscrivere il patto monetario con la Francia”, scrive Magnaschi, “così il 10 gennaio 1963 ordinò di iniziare a stampare una moneta nazionale. Ma tre giorni dopo, uno squadrone di soldati, appoggiati dalla Francia, lo assassinò. E il Togo dovette tenersi il franco Cfa come moneta”.
Meno cruenta la sorte del presidente maliano Modioba Keita, anch’egli avverso al franco Cfa, che fu deposto nel novembre 1968 da Moussa Traoré, anch’egli formatosi militarmente in Francia. Qua occorrerebbe però controbattere che i tentativi di Keita di trasformare l’economia maliana sul modello socialista stavano riscuotendo risultati poco felici, con la conseguenza di accrescere il malcontento popolare.
L’ex presidente del Togo, Sylvanus Olympio
Un vantaggio soprattutto per le élite
Se molte delle critiche che vengono rivolte al franco Cfa sono spesso distorte o grossolane, una parte di verità dunque c’è. Correndo a nostra volta il rischio di semplificare un po’ troppo, potremmo dire che il franco Cfa fa comodo alle élite africane e, in generale, alle classi agiate, che possono acquistare più agevolmente beni dall’estero e, con la stessa facilità, possono trasferire capitali altrove. Discorso contrario per la piccola impresa e l’agricoltura, che vengono schiacciate da una valuta forte che rende più conveniente acquistare beni importati e scoraggia gli investimenti interni, già danneggiati dalla fuga di capitali alimentata dalla convertibilità illimitata del franco Cfa in euro.
Da questo punto di vista, si comprende ancora meglio quanto poco senso abbia affermare che “un Paese può uscire liberamente dal franco Cfa”. Chi ha convenienza nel mantenere in piedi questo sistema è la parte più ricca e influente della popolazione, che, in Paesi che non sono proprio modelli di democrazia liberale, non ha molto interesse nel favorire quello sviluppo della classe media che ha come presupposto lo sviluppo della piccola e media impresa.
“Un cappio che va reciso”
Un altro argomento poco solido circolato in queste ore riguarda il fatto che i venti miliardi di dollari depositati, come garanzia, presso la Banca di Francia dai Paesi aderenti al franco Cfa siano tutto sommato una cifra piccola. Lo è magari per la Francia, che certo non ci farebbe molto se ci dovesse davvero pagare il debito pubblico, ma per Paesi come il Burkina Faso o la Guinea Equatoriale non sono esattamente spiccioli, senza contare che il deposito, spiega Deutsche Welle, ha un interesse negativo, ovvero queste nazioni devono pagare per poter detenere all’estero una quota che, lo ricordiamo, è pari a ben il 50% delle loro riserve in valuta estera.
Di recente il presidente del Ciad, Idriss Deby, è tornato a chiedere una riduzione della riserva obbligatoria da detenere a Parigi. Quei soldi, secondo Deby, sarebbe meglio spenderli in Africa per costruire infrastrutture, compensando i minori introiti dalle materie prime, e per portare avanti la lotta a Boko Haram. L’11 agosto 2015, cinquantacinquesimo anniversario dell’indipendenza del Ciad, il presidente parlò di “un cappio che impedisce lo sviluppo dell’Africa e che deve essere reciso”. La pensa all’opposto il presidente del Senegal, Macky Sall, secondo il quale “vale la pena” mantenere il franco Cfa.
Il presidente del Ciad, Idriss Deby
Il dibattito tra gli economisti
Il dibattito è animato anche tra gli economisti africani. Per Ismael Dem, direttore generale della Banca Centrale degli Stati dell’Africa Occidentale (che raccoglie 8 Paesi che utilizzano il franco Cfa) e quindi parte in causa, è “assurdo” incolpare la moneta per il mancato sviluppo dell’area. Nondimeno, sottolinea ancora l’Economist, per quanto una valuta comune dovrebbe sulla carta agevolare gli scambi tra le nazioni dove circola, le economie che utilizzano il franco Cfa esportano verso la Francia più di quanto esportino tra loro.
L’Economist ricorda come l’unica svalutazione del franco Cfa, avvenuta nel 1994, fu accolta con rivolte, dal momento che anche i meno abbienti si ritrovarono a dover pagare più cari i beni importati. Allora, però, l’euro non esisteva ancora e lo stesso franco stampato a Parigi era più flessibile. Il forte apprezzamento dell’euro avvenuto nel 2000 ha infatti avuto effetti diretti anche nei Paesi africani a esso agganciati, che sono stati invasi dal made in China con le prevedibili conseguenze sulle imprese locali.
I volumi di scambio tra i 14 Paesi dell’area rappresentano inoltre meno del 20% dei flussi commerciali totali, il che mostra come una valuta unica non abbia contribuito ad aumentare l’integrazione tra le economie che la condividono. Siamo quindi molto lontani dalla definizione di scuola di “area monetaria ottimale” (non che lo si possa dire dell’Eurozona).
È, allo stesso tempo, arduo sostenere che uscire di colpo dal franco Cfa porterebbe dei vantaggi. Esportare materie prime in modo competitivo verso l’Europa diventerebbe più difficile e medi produttori di petrolio come il Gabon o il Congo Brazzaville, ad esempio, si ritroverebbero a dover competere ad armi pari con giganti come la Nigeria o l’Algeria (in una fase di crisi delle materie prime, come quella attraversata l’anno scorso, il discorso diventa però molto diverso).
Anche per questo sembrano riscuotere più fortuna le teorie di chi propone una via di mezzo, ovvero un franco Cfa che sia agganciato non solo all’euro ma a un paniere di valute che includa anche il dollaro e lo yuan, come propose Carlos Lopes, ex segretario esecutivo della Commissione Economica per l’Africa dell’Onu e originario della Guinea Bissau.
Sono infatti solo i politici più radicali a propugnare l’uscita improvvisa di singoli Paesi: i critici propongono per lo più uno smantellamento coordinato dell’area e la sostituzione del franco Cfa con un’altra valuta comune. Occorrerebbe però mettere d’accordo 14 nazioni.
Sovranismo africano a ritmo di rap
Oltre all’aspetto economico, c’è poi quello politico. Molti africani, soprattutto nelle classi popolari, vedono il franco Cfa come un residuo coloniale e la loro richiesta di consegnarlo al passato si colora di un sovranismo panafricano che ha come numi tutelari proprio figure come Sankara.
Nell’estate 2018 dieci artisti rap provenienti da sette diverse nazioni produssero insieme un brano intitolato “sette minuti contro il franco Cfa”. “Finiamola col bla bla bla, basta con il franco Cfa“, recita il testo, “la storia va vaanti, un alto grido dalle nostre strade, il franco Cfa morirà e noi danzeremo al suo funerale“. L’obiettivo della canzone è sensibilizzare il pubblico giovanile contro quello che, a prescindere da vantaggi e svantaggi economici, viene visto come un perdurare dell’ingerenza francese sulle ex colonie.
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Le accuse di neocolonialismo non risultano peraltro così esagerate se si guarda alla governance delle due banche centrali che regolano l’emissione e la circolazione del franco Cfa, ovvero la già citata Banca Centrale degli Stati dell’Africa Occidentale (Bceao) e la Banca degli Stati dell’Africa Centrale (Beac). In entrambi gli istituti, spiega un articolo pubblicato sul sito della London School of Economics, la Francia gode di fatto di un potere di veto sui consigli di amministrazione. Nel caso della Bceao, il comitato di politica monetaria include addirittura dal 2010 un membro francese con diritto di voto.
Essere arrestati per aver bruciato una banconota
Ancora più eco aveva avuto, il 19 agosto 2017, la protesta dell’attivista Kemi Saba, francese di origini beninesi, che fu arrestato in Senegal dopo aver bruciato in pubblico una banconota da 5.000 Fca (circa 8 euro) per protestare contro le ingerenze di Parigi nelle ex colonie.
A far scattare l’arresto fu una denuncia della Bceao. Saba fu poi assolto grazie a un cavillo (la legge senegalese punisce chi brucia in pubblico più di una banconota) ma fu espulso dal Paese. È una figura discussa Saba, fondatore di un partito “kemita” che vuole far risalire all’antico Egitto le origini del panafricanismo. Eppure ci fu chi paragonò la sua azione a quella di Nelson Mandela quando bruciò il suo vecchio passaporto dei tempi dell’apartheid.
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