Da quattro titoli (Capo del M5s, vicepremier, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico), poi passati a due (Capo politico e ministro degli Esteri) Luigi Di Maio veleggia verso lo stesso zero tituli di mourinhiana memoria. Malgrado le smentite di rito, particolarmente imbufalite, la notizia data dal Fatto Quotidiano e in parte anticipata dal Foglio è credibile: Di Maio è in procinto di lasciare la carica di Capo del Movimento, addirittura, secondo il giornale di Marco Travaglio, prima delle regionali emiliane – che si vanno davvero configurando come il giorno del giudizio – cioè prima dell’ennesimo capitombolo elettorale (sarà tanto se supereranno il 5%, una percentuale avvilente).
I tempi dell’abbandono della nave si vedranno ma quello che è certo, se n’è avuta l’ennesima riprova in una riunione dei senatori l’altra sera, è che davvero il Movimento appare come uno sciame impazzito che nessuno riesce più a governare, tantomeno Di Maio, tra l’altro sommerso dall’impegno di ministro degli Esteri, e sarà questa la scusa della fuga. Sì, una scusa, perché la realtà parla d’altro. Di un leader che ha dilapidato un patrimonio di voti e che oggi guida un Movimento totalmente privo di appeal elettorale, senza un orizzonte politico chiaro che non sia la subalternità al Pd o alla Lega. Lo sfavoleggiare sull’essere né di destra né di sinistra scolora in una mesta navigazione senza benzina fra i due lidi della politica, e anzi l’impressione è che un approdo sicuro sia ormai fuori dalla portata dei naufraghi.
Difficile dire cosa succederà ora al vertice del M5s. Di Maio potrebbe dichiarare aperta una fase nuova, con una gestione collegiale, e poi tirare le somme agli Stati generali di metà marzo forse ad Assisi, la città del Poverello. Gestione collegiale? Possibile, ma con gente di quel tipo finirebbe tutti i giorni come all’osteria dopo una bevuta. I rapporti, anche umani, sono pessimi. Ancora non ci siamo, ma il clima è quello di una storia finita.
Come nel vecchio romanzo francese, nel nido di vipere tutti si muovono per trovare la strada della propria personale sopravvivenza. Ma si va a tentoni. Se Di Maio non è capace di fare il leader, non è che i sottocapi brillino. Si ammazzano l’uno con l’altro e alla fine rischia di non rimanere nessuno come nel giallo di Agatha Christie. Colpisce, semmai, il silenzio di queste ore di Beppe Grillo e Davide Casaleggio, probabilmente divisi sul da farsi (il comico dovrebbe anche spiegare perché ha nuovamente messo la spada sulla spalla di Di Maio non più di un mese fa) e appesantiti dall’averle provate tutte, dal direttorio all’uomo solo al comando: sempre con esiti fallimentari.
Nel bailamme, lo stillicidio degli abbandoni somiglia al supplizio della goccia cinese che a lungo andare buca il cranio. La questione rischia persino di diventare istituzionale, perché questo smembrarsi e riformarsi di gruppi alla lunga può configurare un nuovo assetto della maggioranza. Logico che Conte e Mattarella non desiderino eccessivi smottamenti.
Il problema ulteriore è che un abbandono di Di Maio della leadership del suo partito lo indebolirebbe tantissimo nel governo. Dove la sua posizione non è esattamente brillantissima, data la penosa performance alla Farnesina. Conte gli addebita una responsabilità specifica nella figuraccia internazionale dell’abortito colpo diplomatico del doppio invito a Haftar e Serraj a Palazzo Chigi.
E d’altra parte è chiaro a tutti che il dossier libico non può essere lasciato nelle inesperte mani del giovane pomiglianese. L’Europa – ammesso e non concesso che intenda muoversi – non punta certo su di lui. Si parla di un incarico a Marco Minniti o ad altre figure che nel recente passato hanno avuto ruoli importanti di governo e sarebbe inevitabile scorgervi una supplenza di fatto del ministro degli Esteri. Ecco dunque profilarsi un uno-due micidiale, una autodetronizzazione e un impallidimento nel ruolo di ministro, due ganci al volto che metterebbero al tappeto chiunque.
https://www.linkiesta.it/it/article/2020/01/11/luigi-di-maio-5s-lascia-ministero-esteri/45025/