Ubaldo Oppi, I chirurghi, 1926, olio su tela, Museo Civico di Palazzo Chiericati, Vicenza
Genova – Come eravamo, cento anni fa. L’esposizione Anni Venti in Italia. L’età dell’incertezza, fino al 1 Marzo 2020 al Palazzo Ducale di Genova, è il ritratto di un’Italia ferita appena uscita dalla Grande Guerra e di una cultura che cercava una via di fuga dalla realtà, sconfinando nell’irrazionale tra sonno e incubi. Difficile trovare analogie tra il secondo decennio del Novecento e il mondo odierno, tuttavia l’osservazione del nostro passato a distanza offre una consolazione all’incertezza dei tempi attuali e uno spunto per la riflessione.
Abbiamo incontrato i due curatori della mostra, Gianni Franzone e Matteo Fochessati.
Come è nata l’idea dell’esposizione Anni Venti in Italia. L’età dell’incertezza?
Gianni Franzone: “L’idea alla base della mostra è stata di fare un ritratto degli anni Venti del Novecento, a un secolo esatto di distanza. L’esposizione evidenzia come tale decennio sconfini leggermente dalle date canoniche. Inizia anticipatamente, con la fine del Primo conflitto mondiale e quindi con i postumi di uno degli eventi più tragici della storia dell’umanità. E finisce prima, con un altro evento tragico e foriero di conseguenze almeno per l’intero decennio successivo, cioè il crollo della borsa di Wall Street dell’ottobre del 1929, la più grave crisi economico-finanziaria che il mondo moderno abbia vissuto, paragonabile solo alla recente crisi del 2008, le cui conseguenze sono ancora sotto gli occhi di tutti. Ecco, ci è parso che il clima di incertezza, inquietudine, ansia, aspettativa, spaesamento, straniamento e paura che caratterizzò gli anni Venti del Novecento connoti, in un’atmosfera generale completamente diversa, anche il nuovo decennio che è appena iniziato. Un’idea, questa, che è alla base, per esempio, di un libro di cui molto si è parlato, “M. Il figlio del secolo” di Antonio Scurati che si è aggiudicato il premio Strega 2019.”
Entrambi ricoprite anche l’incarico di curatori dell’eterogenea Collezione Wolfsoniana di Genova, che include oggetti e opere d’arte del periodo compreso fra il 1880 e il 1954. In che modo la mostra risente della vostra esperienza professionale?
Gianni Franzone: “Anche se la mostra a Palazzo Ducale presenta un numero limitato di opere provenienti dalla collezione Wolfsoniana, l’approccio curatoriale è – mi si passi il termine – “wolfsoniano”, nel senso che riflette il tentativo di ricostruire e interpretare un’epoca, in questo caso un decennio, nella sua totalità e complessità, interpretando la produzione artistica alla luce del panorama storico, politico, sociale ed economico del tempo.
Delle cento opere esposte, 8 appartengono alla collezione della Wolfsoniana. Alcune sono conosciute perché solitamente esposte al museo, altre perché già presentate in altre occasioni espositive. C’è però una novità assoluta: Noi viviamo il mistero che abbiamo violato, un enigmatico dipinto del veneziano Giacinto Fuga, ancora di proprietà di Micky Wolfson, che, per l’occasione, è stato restaurato grazie alla generosità dello Studio Oberto di Genova.”
Quali sono gli aspetti della produzione artistica degli anni Venti che avete voluto sottolineare?
Gianni Franzone: “La principale rivoluzione compiuta dagli artisti negli anni Venti fu la ripresa di un approccio realistico, dopo la temperie avanguardistica che aveva connotato il primo decennio del secolo. Un cambiamento che è definito, in modo pregnante ma anche limitativo, come “ritorno all’ordine”. Ci siamo sforzati di sottolineare che questo recupero della figurazione non rappresenta il ritorno a un’estetica reazionaria e conservatrice, bensì segna l’inizio di un’interpretazione nuova della realtà, che va ben oltre la sua esteriore immagine fenomenica. Si tratta di un realismo che non è ottocentesco, non è illustrativo, non è neppure propriamente mimetico. Nelle sue varie declinazioni – Valori Plastici, Realismo magico, ma anche Novecento – gli artisti italiani degli anni Venti utilizzano un approccio realistico in termine di resa espressiva, ma il contenuto è ben diverso: magico, segreto. Come scrisse il critico tedesco Franz Roh a proposito della versione tedesca del movimento definito Realismo magico “la pittura torna a farsi specchio del mondo esterno tangibile”, nel senso di rappresentare una visione interiore che non prescinde dall’esistenza del mondo esterno. In questo senso, pur trattandosi di una pittura figurativa, è una pittura che tende a portare a galla il segreto e il mistero insito nella realtà stessa.”
Quali personaggi sono stati i principali fautori di questo cambiamento?
Matteo Fochessati: “È difficile, come sempre, dovendo affrontare un periodo così articolato, selezionare alcuni nomi di protagonisti dell’epoca. Sicuramente nel campo della critica d’arte il personaggio più influente fu Margherita Sarfatti cui è stata dedicata recentemente una grande mostra in due sedi a Rovereto e a Milano. La sua presenza in mostra non è esplicita, ma aleggia in tutte le opere del movimento novecento da lei fondato. Altrettanto importante e significativo appare il ruolo di Matteo Marangoni di cui si presenta il ritratto eseguito da Baccio Maria Bacci: Marangoni fu importante per il suo ruolo di divulgatore (suoi i manuali Arte barocca e Come si guarda un quadro, edito nel1927) e per il suo fondamentale contributo al revival del barocco. Tra gli artisti fondamentali sono le figure di de Chirico e di Sironi, ma come dimenticare Casorati, di cui non a caso si è scelto di selezionare un dipinto per il manifesto e la copertina del catalogo. In scultura la mostra documenta con quattro straordinarie opere la fondamentale esperienza plastica di Arturo Martini.”
Quale era la rappresentazione del femminile e quale è stato il contributo all’arte delle donne nel decennio?
Matteo Fochessati: “Vi è una sola artista presente in mostra con un dipinto: la siciliana Pasqualina Noto. Tuttavia nei numerosi ritratti in esposizione compaiono diverse figure femminili che ebbero un ruolo determinante nella temperie culturale e artistica di quel decennio: dalla pittrice Alma Fidora, moglie del critico Ugo Nebbia, a Mademoiselle Parisis, celebre soubrette parigina ritratta da Savinio di cui era collezionista; dalla duchessa de La Salle-Roche-Maure, qui raffigurata dal futurista Prampolini, ma già ritratta da Tamara de Lempicka, alla marchesa Casati, l’emblema della trasgressione dell’epoca. Il contributo delle donne fu fondamentale in questo periodo: la loro emancipazione era infatti iniziata durate il conflitto, quando si erano trovate a sostituire gli uomini al fronte in professioni abitualmente afferenti il genere maschile e negli anni Venti questo percorso di affrancamento dai tradizionali modelli comportamentali si manifestò non solo in campo artistico, ma anche in quello della moda e del costume.”
Quale fu il ruolo dell’Italia nell’Europa del decennio?
Matteo Fochessati: “Anche questa domanda esige un notevole sforzo di sintesi. l’Italia negli anni venti è una nazione uscita vincitrice della guerra, ma che, convinta dalla retorica dannunziana di essere vittima di una vittoria mutilata, cerca un riscatto internazionale nelle sirene propagandistiche della dittatura. E se i primi anni del fascismo sono quelli del massimo consenso non solo interno, ma anche internazionale, lo scotto da pagare fu la perdita delle libertà democratiche e lo scatenamento della violenza squadrista contro le opposizioni, prodomi delle future tragedie cui andrà incontro la nazione.”
Quale fu il peso della Prima Guerra mondiale sull’arte degli anni Venti?
Matteo Fochessati: “Il trauma della guerra si ripercuote su tutto il decennio successivo, anche se il regime s’impegnò ad alimentare, attraverso la sua macchina propagandistica, la retorica celebrazione dei caduti e dei mutilati. Come documentato in mostra, nonostante le rigide maglie della censura e le rappresaglie contro ogni cosiddetto segnale di disfattismo, il prolungarsi del lutto, che flagellò l’intera popolazione, continuò a manifestarsi in forme più o meno allusive.”
Quali furono secondo voi i lati più oscuri, inquieti e irrazionali?
Matteo Fochessati: “Il diffuso scollamento con la realtà, che contraddistinse gli anni Venti, ispirò in genere la nostalgia per un passato mitico e ideale, ma spesso questa tensione culturale indusse anche a sconfinare nell’irrazionale, contribuendo ad aprire spiragli inaspettati e non desiderati verso la dimensione dell’incubo e dell’angoscia o verso l’ossessiva reiterazione di esperienze traumatiche, direttamente vissute durante la recente esperienza bellica. Le suggestioni dell’irrazionale rappresentano una tra le tante forme di fuga e di evasione che si manifestarono in questo periodo: spiritismo, trance ed evocazioni medianiche, cui rifugiarsi per sfuggire all’inquietante presagio di una rovina imminente, improntarono molte forme espressive del tempo. E se quest’aspirazione di fuga dalla realtà fu simboleggiata in letteratura e nelle arti figurative dal tema del sonno – un sonno, senza serenità e pace -, gli incubi individuali ben presto si trasformarono nel sogno angoscioso di un’intera nazione, come esemplificato in mostra dalla tragica e grottesca maschera del Duce dell’artista anarchico Giandante X.”
Abbiamo incontrato i due curatori della mostra, Gianni Franzone e Matteo Fochessati.
Come è nata l’idea dell’esposizione Anni Venti in Italia. L’età dell’incertezza?
Gianni Franzone: “L’idea alla base della mostra è stata di fare un ritratto degli anni Venti del Novecento, a un secolo esatto di distanza. L’esposizione evidenzia come tale decennio sconfini leggermente dalle date canoniche. Inizia anticipatamente, con la fine del Primo conflitto mondiale e quindi con i postumi di uno degli eventi più tragici della storia dell’umanità. E finisce prima, con un altro evento tragico e foriero di conseguenze almeno per l’intero decennio successivo, cioè il crollo della borsa di Wall Street dell’ottobre del 1929, la più grave crisi economico-finanziaria che il mondo moderno abbia vissuto, paragonabile solo alla recente crisi del 2008, le cui conseguenze sono ancora sotto gli occhi di tutti. Ecco, ci è parso che il clima di incertezza, inquietudine, ansia, aspettativa, spaesamento, straniamento e paura che caratterizzò gli anni Venti del Novecento connoti, in un’atmosfera generale completamente diversa, anche il nuovo decennio che è appena iniziato. Un’idea, questa, che è alla base, per esempio, di un libro di cui molto si è parlato, “M. Il figlio del secolo” di Antonio Scurati che si è aggiudicato il premio Strega 2019.”
Entrambi ricoprite anche l’incarico di curatori dell’eterogenea Collezione Wolfsoniana di Genova, che include oggetti e opere d’arte del periodo compreso fra il 1880 e il 1954. In che modo la mostra risente della vostra esperienza professionale?
Gianni Franzone: “Anche se la mostra a Palazzo Ducale presenta un numero limitato di opere provenienti dalla collezione Wolfsoniana, l’approccio curatoriale è – mi si passi il termine – “wolfsoniano”, nel senso che riflette il tentativo di ricostruire e interpretare un’epoca, in questo caso un decennio, nella sua totalità e complessità, interpretando la produzione artistica alla luce del panorama storico, politico, sociale ed economico del tempo.
Delle cento opere esposte, 8 appartengono alla collezione della Wolfsoniana. Alcune sono conosciute perché solitamente esposte al museo, altre perché già presentate in altre occasioni espositive. C’è però una novità assoluta: Noi viviamo il mistero che abbiamo violato, un enigmatico dipinto del veneziano Giacinto Fuga, ancora di proprietà di Micky Wolfson, che, per l’occasione, è stato restaurato grazie alla generosità dello Studio Oberto di Genova.”
Quali sono gli aspetti della produzione artistica degli anni Venti che avete voluto sottolineare?
Gianni Franzone: “La principale rivoluzione compiuta dagli artisti negli anni Venti fu la ripresa di un approccio realistico, dopo la temperie avanguardistica che aveva connotato il primo decennio del secolo. Un cambiamento che è definito, in modo pregnante ma anche limitativo, come “ritorno all’ordine”. Ci siamo sforzati di sottolineare che questo recupero della figurazione non rappresenta il ritorno a un’estetica reazionaria e conservatrice, bensì segna l’inizio di un’interpretazione nuova della realtà, che va ben oltre la sua esteriore immagine fenomenica. Si tratta di un realismo che non è ottocentesco, non è illustrativo, non è neppure propriamente mimetico. Nelle sue varie declinazioni – Valori Plastici, Realismo magico, ma anche Novecento – gli artisti italiani degli anni Venti utilizzano un approccio realistico in termine di resa espressiva, ma il contenuto è ben diverso: magico, segreto. Come scrisse il critico tedesco Franz Roh a proposito della versione tedesca del movimento definito Realismo magico “la pittura torna a farsi specchio del mondo esterno tangibile”, nel senso di rappresentare una visione interiore che non prescinde dall’esistenza del mondo esterno. In questo senso, pur trattandosi di una pittura figurativa, è una pittura che tende a portare a galla il segreto e il mistero insito nella realtà stessa.”
Quali personaggi sono stati i principali fautori di questo cambiamento?
Matteo Fochessati: “È difficile, come sempre, dovendo affrontare un periodo così articolato, selezionare alcuni nomi di protagonisti dell’epoca. Sicuramente nel campo della critica d’arte il personaggio più influente fu Margherita Sarfatti cui è stata dedicata recentemente una grande mostra in due sedi a Rovereto e a Milano. La sua presenza in mostra non è esplicita, ma aleggia in tutte le opere del movimento novecento da lei fondato. Altrettanto importante e significativo appare il ruolo di Matteo Marangoni di cui si presenta il ritratto eseguito da Baccio Maria Bacci: Marangoni fu importante per il suo ruolo di divulgatore (suoi i manuali Arte barocca e Come si guarda un quadro, edito nel1927) e per il suo fondamentale contributo al revival del barocco. Tra gli artisti fondamentali sono le figure di de Chirico e di Sironi, ma come dimenticare Casorati, di cui non a caso si è scelto di selezionare un dipinto per il manifesto e la copertina del catalogo. In scultura la mostra documenta con quattro straordinarie opere la fondamentale esperienza plastica di Arturo Martini.”
Quale era la rappresentazione del femminile e quale è stato il contributo all’arte delle donne nel decennio?
Matteo Fochessati: “Vi è una sola artista presente in mostra con un dipinto: la siciliana Pasqualina Noto. Tuttavia nei numerosi ritratti in esposizione compaiono diverse figure femminili che ebbero un ruolo determinante nella temperie culturale e artistica di quel decennio: dalla pittrice Alma Fidora, moglie del critico Ugo Nebbia, a Mademoiselle Parisis, celebre soubrette parigina ritratta da Savinio di cui era collezionista; dalla duchessa de La Salle-Roche-Maure, qui raffigurata dal futurista Prampolini, ma già ritratta da Tamara de Lempicka, alla marchesa Casati, l’emblema della trasgressione dell’epoca. Il contributo delle donne fu fondamentale in questo periodo: la loro emancipazione era infatti iniziata durate il conflitto, quando si erano trovate a sostituire gli uomini al fronte in professioni abitualmente afferenti il genere maschile e negli anni Venti questo percorso di affrancamento dai tradizionali modelli comportamentali si manifestò non solo in campo artistico, ma anche in quello della moda e del costume.”
Quale fu il ruolo dell’Italia nell’Europa del decennio?
Matteo Fochessati: “Anche questa domanda esige un notevole sforzo di sintesi. l’Italia negli anni venti è una nazione uscita vincitrice della guerra, ma che, convinta dalla retorica dannunziana di essere vittima di una vittoria mutilata, cerca un riscatto internazionale nelle sirene propagandistiche della dittatura. E se i primi anni del fascismo sono quelli del massimo consenso non solo interno, ma anche internazionale, lo scotto da pagare fu la perdita delle libertà democratiche e lo scatenamento della violenza squadrista contro le opposizioni, prodomi delle future tragedie cui andrà incontro la nazione.”
Quale fu il peso della Prima Guerra mondiale sull’arte degli anni Venti?
Matteo Fochessati: “Il trauma della guerra si ripercuote su tutto il decennio successivo, anche se il regime s’impegnò ad alimentare, attraverso la sua macchina propagandistica, la retorica celebrazione dei caduti e dei mutilati. Come documentato in mostra, nonostante le rigide maglie della censura e le rappresaglie contro ogni cosiddetto segnale di disfattismo, il prolungarsi del lutto, che flagellò l’intera popolazione, continuò a manifestarsi in forme più o meno allusive.”
Quali furono secondo voi i lati più oscuri, inquieti e irrazionali?
Matteo Fochessati: “Il diffuso scollamento con la realtà, che contraddistinse gli anni Venti, ispirò in genere la nostalgia per un passato mitico e ideale, ma spesso questa tensione culturale indusse anche a sconfinare nell’irrazionale, contribuendo ad aprire spiragli inaspettati e non desiderati verso la dimensione dell’incubo e dell’angoscia o verso l’ossessiva reiterazione di esperienze traumatiche, direttamente vissute durante la recente esperienza bellica. Le suggestioni dell’irrazionale rappresentano una tra le tante forme di fuga e di evasione che si manifestarono in questo periodo: spiritismo, trance ed evocazioni medianiche, cui rifugiarsi per sfuggire all’inquietante presagio di una rovina imminente, improntarono molte forme espressive del tempo. E se quest’aspirazione di fuga dalla realtà fu simboleggiata in letteratura e nelle arti figurative dal tema del sonno – un sonno, senza serenità e pace -, gli incubi individuali ben presto si trasformarono nel sogno angoscioso di un’intera nazione, come esemplificato in mostra dalla tragica e grottesca maschera del Duce dell’artista anarchico Giandante X.”