Quando alla Bolognina Achille Occhetto fece balenare l’ipotesi di cambiare nome al Pci, il medesimo Pci tenne subito un comitato centrale che durò cinque giorni (poi ve ne furono altri due, e anche due congressi). Invece nel conclave reatino riunitosi dopo la “conversazione” fra Nicola Zingaretti e Massimo Giannini nella quale si adombrava l’ipotesi dello scioglimento del Pd, di tutto si è parlato tranne che di questo. Curioso, no? Pare che il silenzio sulla “rivoluzione” annunciata da Zingaretti fosse stato concordato dai maggiorenti per non oscurare il tema vero per il quale il conclave era stato convocato, fornire idee targate Pd per la mitica verifica di governo. Può darsi. Come può anche darsi che lo stesso segretario, una volta lanciato il sasso in piccionaia, voglia un po’ di tempo per maturare la seconda puntata della serie. Il segretario ha detto che il congresso si farà “dopo le regionali”, ma non si è capito se dopo il voto emiliano, cioè subito, o dopo tutte le regionali, quindi più in là. Diciamo che al momento è tutto per aria. Il che la dice lunga sul modo di impostare una discussione addirittura storica – il cambio di paradigma, di pelle, di rapporto con la società – di un partito che oscilla sempre fra depressione e esaltazione trovando difficilmente un punto di equilibrio.
Insomma, si è usciti dalla due giorni di Contigliano come vi si era entrati, al netto di punti programmatici che male non fanno ma che per diventare carne viva hanno bisogno di un contesto politico chiaro e solido. Invece l’unica cosa veramente chiara – senza alcuna ironia – è l’assillo molto franceschiniano di tenere il Conte2 al riparo da qualunque intemperie, foss’anche una sconfitta di Bonaccini in Emilia. L’evenienza viene ovviamente esorcizzata – “Bonaccini vincerà” – ma lo stesso segretario è consapevole che una disfatta in Emilia sarebbe una “sua” disfatta. Così emerge un’altra ipotesi, cioè che anche scontando una crisi al vertice del Pd non per forza dovrebbe discenderne una crisi di governo. Ma sono al momento teorie che stanno in piedi più per l’ottimismo della volontà che per il pessimismo della ragione e che andranno tutte verificate. Per ora basta incrociare le dita per la vittoria di “Stefano”.
Il dibattito nella gelida abbazia ha mostrato una certa coesione, anche spostando un po’ l’asse “di sinistra” che era emerso al convegno bolognese di novembre influenzato dai discorsi di Fabrizio Barca, Gianni Cuperlo e Maurizio Landini – per fare tre nomi emblematici – mentre in questa circostanza si è planati su un terreno più pragmatico e di governo, al di là di dispute un tantino surreali come quella se sia più importante la crescita o la redistribuzione, lasciando campo aperto a chi sostiene lapalissianamente che occorrono tutt’e due le cose. Il Pd porterà sul tavolo della verifica cinque punti: rivoluzione verde per tornare a crescere, Italia semplice per sburocratizzare a favore di imprese e cittadini, Equity Act per parità salariale uomo-donna ed equilibrio nord-sud, aumento della spesa per l’educazione, piano per la salute e l’assistenza. Dette così, sono cose che non si possono non condividere.
Ma sul contesto politico resta un’ambiguità di fondo, ed è sui Cinque Stelle: alleati organici per Franceschini, membri onorari della destra per Orfini. Il quale valuta l’ennesimo impasse del suo partito sui decreti sicurezza come la riprova di una totale subalternità ai grillini, e a poco vale sentirsi ricordare da molti che il Pd è in parlamento meno forte del M5s. Quello di cui si può discutere riguarda come si intenda far valere la propria forza, in altri termini, se si possa accettare il rischio di far cadere il governo in nome di certi contenuti. La risposta dei capi del Pd è: no. Conte non si tocca, costi quel che costi.
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