Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio lo ha detto nella sua informativa alla Camera e al Senato sulla Libia. «Il nostro obiettivo è avere un governo stabile, rappresentativo di tutto il Paese e in grado di esercitare il monopolio legale della forza, proteggere le frontiere … gestire migranti e richiedenti asilo in maniera efficace e nel rispetto dei diritti umani», ha spiegato. «Una Libia stabile e unita è per noi condizione imprescindibile per contrastare la minaccia terroristica, prevenire flussi migratori illegali, tutelare i nostri interessi energetici».
Tradotto: l’urgenza italiana di una «soluzione politica e non militare» a Tripoli, ripetuta da più parti nel governo – a pochi giorni dalla conferenza di Berlino e dopo la figuraccia sul fallito colpo diplomatico del doppio invito a Haftar e Serraj a Palazzo Chigi – ha l’obiettivo soprattutto di preservare quel memorandum Italia-Libia sui migranti, che – come ha reso noto l’agenzia Onu per le migrazioni Oim –nelle prime settimane dell’anno ha fatto sì che quasi mille persone in fuga siano già state rispedite sulle coste libiche. Un patto col diavolo che nessuno al governo ha il coraggio di mettere in discussione. Persino ora che è sotto gli occhi di tutti il fatto che in quello Stato che nel memorandum viene definito come “porto sicuro” sia in realtà in corso una guerra sanguinosa. Se l’accordo dovesse saltare e gli sbarchi dovessero iniziare a crescere, per il governo italiano sarebbe un problema. Politico soprattutto, con il test elettorale emiliano alle porte e Salvini pronto a battere cassa. Ecco perché nessuno, anche in queste ore, osa metterlo in discussione.
Lo scorso 2 novembre, l’intesa stipulata da Marco Minniti il 2 febbraio 2017 è stato rinnovata dall’Italia in maniera automatica, tranquillizzando gli animi a Tripoli, nonostante le inchieste giornalistiche sulla trattativa mai chiarita con i trafficanti e le numerose denunce di violazioni di diritti umani e gli «inimmaginabili orrori» nei centri di detenzione libici finanziati da Roma che l’Onu ha documentato più volte.
Mentre nella maggioranza in tanti chiedevano di non rinnovare l’accordo – con un appello firmato da deputati, senatori ed europarlamentari di Pd, Italia Viva, Leu e Più Europa – a novembre la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese andò alla Camera a diferendere il memorandum, annunciando però alcune modifiche di miglioramento che l’Italia avrebbe proposto alla controparte libica. Controparte che da subito, con le acque agitate a Roma, ha mostrato di avere il coltello dalla parte del manico, quando già qualche giorno dopo la discussione, si registrò una impennata degli sbarchi. Con tanto di annunci roboanti di Matteo Salvini.
Forse è anche per questo che due mesi dopo le promesse di modifiche al testo, con la Libia in mano a Putin ed Erdogan, siamo punto e a capo. Il memorandum non è stato rivisto affatto. Anzi, il gruppo di lavoro annunciato dalla ministra Lamorgese, che avrebbe dovuto definire nei dettagli le modifiche da proporre a Tripoli, alla fine non si è mai insediato. E il testo è rimasto tale e quale. Continuando a ritenere quindi la Libia un “porto sicuro” in cui respingere i migranti, nonostante il conflitto in corso che lo stesso Di Maio ha documentato nella sua informativa urgente al Parlamento. Nel dibattito alla Camera, il deputato di Leu Erasmo Palazzotto lo ha fatto notare, chiedendo la «sospensione» degli accordi con la Libia.
Ma Di Maio è uno dei più convinti difensori dell’esternalizzazione delle frontiere su Tripoli. E più volte ha ripetuto che il memorandum con la Libia non si tocca. Compresi, soprattutto, quei finanziamenti che l’Italia continua a elargire alla cosiddetta guardia costiera libica che, secondo diversi rappresentanti delle ong in mare, altro non sarebbe che «un’invenzione tutta italiana», un corpo militare infiltrato da miliziani di ogni tipo collusi con i trafficanti.
Secondo i calcoli di Oxfam Italia, nei tre anni passati – solo per quanto riguarda i finanziamenti documentati nelle leggi sul rifinanziamento delle missioni – l’Italia ha speso oltre 150 milioni di euro per la formazione del personale locale nei centri di detenzione libici e la fornitura di mezzi alla guardia costiera e alle autorità di Tripoli. Con un aumento delle spese anno dopo anno. A questi si aggiungono poi i 328 milioni stanziati da Bruxelles dal 2016 per finanziare i centri, da più parti definiti “lager”, dove ora sarebbero detenuti circa 5mila migranti in condizioni che numerose organizzazioni hanno definito come disumane. Il governo italiano continua a ripetere che vanno migliorate le condizioni dei centri. Di Maio il 14 gennaio ha incontrato alla Farnesina il presidente dell’Oim, Antonio Vitorino, dichiarando che l’obiettivo è il «miglioramento delle condizioni di vita di migranti, rifugiati, sfollati e comunità di accoglienza». Ma, soprattutto con la guerra in corso, restano parole al vento e photo opportunity.
Ora, però, questa stessa missione in Libia va rifinanziata. Il decreto per il rifinanziamento delle missioni militari, che contiene anche il finanziamento milionario alle motovedette libiche, era atteso per gennaio. Ma il governo ha preferito rinviarlo a febbraio, dopo il test delle elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria. Anche perché, se il testo dell’accordo libico resta tale e quale, voltando le spalle tanto alla linea Minniti quanto a quella di Salvini, il governo rischia di traballare, visto che né al Senato, ma forse neanche alla Camera, ci sarebbero i numeri per confermare le missioni così come sono. In tanti, tra deputati e senatori, chiedono di ridiscutere quei finanziamenti che, se dimezzati, potrebbero di fatto rendere nullo l’accordo libico. Così, la discussione, come gran parte dei dossier del governo sul tema immigrazione, per il momento è rimandata a data da destinarsi.
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