Elezioni regionali in Emilia Romagna: stravince Bonaccini
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Il giorno dopo la vittoria del Pd e del governatore uscente Stefano Bonaccini nella “rossa” Emilia Romagna, passata l’euforia per lo stop all’onda verde della Lega, tra Palazzo Chigi e Pd emerge la preoccupazione per la tenuta del M5s dopo la debacle alle urne regionali. I dati sono feroci e indicano un movimento che non solo perde ma semplicemente non c’è più: in Calabria i pentastellati arrivano ad appena il 6,27% e restano fuori dal Consiglio regionale (26,69% alle europee dell’anno scorso e 43,35% alle politiche del 2018), in Emilia Romagna si fermano al 4,7% e per di più il loro candidato raccoglie solo il 3,5% per effetto del voto disgiunto (12,9% alle europee dell’anno scorso e 26,9% alle politiche del 2018).
Ora è il M5s il fattore maggiore di rischio per il governo
In queste condizioni diventa proprio il M5s, primo gruppo in Parlamento e al momento quasi scomparso nel Paese, il fattore maggiore di rischio per la stabilità del governo giallo-rosso e la durata della legislatura. Da qui l’acqua sui possibili focolai gettata subito dal premier Giuseppe Conte, che del M5s è pur sempre espressione pur non venendo dalla militanza: «I numeri in Parlamento restano immutati, il M5s è il primo gruppo. Non ha conseguito risultati brillanti, questo è vero, ma consideriamo che il leader Di Maio si è appena dimesso, che il movimento non si è mai strutturato a livello locale e che fino all’ultimo non si è deciso se partecipare o meno. Gli Stati generali di marzo torneranno utili per rilanciare entusiasmo ed energia del M5s».
Occhi puntati sugli Stati generali di marzo
Gli Stati generali di marzo, appunto. È questo l’appuntamento a cui guarda Conte e a cui guarda il Pd di Nicola Zingaretti per definire la strategia politica del prossimo futuro. Con il passo di lato di Luigi Di Maio, fin qui il più fiero oppositore dell’abbraccio con il Pd e teorico di quella terza via del M5s uscita a pezzi dalle urne regionali, l’appuntamento congressuale dei pentastellati dovrebbe far emergere la linea dell’alleanza strutturale con i democratici per la costruzione del «campo largo riformista» caro a Zingaretti. E caro anche a Conte, che di questo campo si immagina possibile federatore. Ma è chiaro che senza più il M5s non ci sarebbe più alleanza da fare né campo da federare. Per questo è importante la tenuta dei pentastellati, ed è importante per il premier e per il Pd non forzare la mano per favorire l’emergere della linea “giusta” senza strappi.
Zingaretti tra agenda riformista e rischio implosione del M5s
Ed è proprio Zingaretti, il vincitore inaspettato di queste elezioni in Emilia Romagna, a trovarsi nella posizione più difficile: un Pd rafforzato richiede l’imposizione di un’agenda più riformista , come chiede non a caso il vicesegretario Andrea Orlando a partire dalla giustizia («il M5s dopo questa severa sconfitta deve rinunciare a un armamentario che non paga elettoralmente e che rende difficile l’attività di governo») . Pena un pericoloso tirare a campare. Ma d’altra parte non è il momento di forzare la mano, come ripete in queste ore l’uomo forte del Pd al governo, Dario Franceschini: «Non dobbiamo umiliare gli alleati in difficoltà costringendoli a subitanei dietrofront sui loro temi identitari, dobbiamo dare loro il tempo di metabolizzare il cambiamento». Altrimenti, è il rischio sottinteso, i pentastellati finirebbero per implodere anzitempo portandosi dietro premier e governo.
L’asse Pd-Conte e l’imperativo del «non vivacchiare»
Fino a marzo si richiede dunque a Conte e Zingaretti, che in questi giorni stanno rinforzando il loro asse con contatti continui, l’arte dell’equilibrismo tra l’esigenza di mettere in campo un’agenda riformista che spinga la crescita, come peraltro chiede incalzando gli alleati Matteo Renzi con la sua Italia Viva, e l’esigenza di non spaccare il M5s. L’unica cosa da evitare nei prossimi mesi è vivacchiare: con un Parlamento che comincia a non rispecchiare più la fotografia del Paese reale – ed è anche la preoccupazione del Quirinale – rimandare la soluzione dei problemi del Paese finirebbe solo per ridare fiato alla propaganda salviniana.
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