Questi sono i giorni della retorica, e andrebbe anche bene, se non fosse una cattiva retorica. Il ritornello sugli italiani casinisti e indisciplinati che però danno il meglio di sé nelle emergenze, ad esempio, è una scemenza, ma soprattutto non è quello che serve adesso: non è il momento delle simpatiche canaglie, degli adorabili sbruffoni, dei Vittorio Gassman, degli Ugo Tognazzi, degli Alberto Sordi (sto parlando dei loro personaggi, ovviamente, non degli attori). Ancora peggiore è la retorica della grande tragedia collettiva che servirà a temprare finalmente il nostro carattere nazionale, a trasformare i casinisti di cui sopra in eroi senza macchia e senza paura. Anche alla vigilia della prima guerra mondiale fior di intellettuali si invaghirono dell’idea che il conflitto sarebbe stato un grande lavacro purificatore da cui il popolo sarebbe uscito mondato dalle sue tare storiche, finalmente unito, civilizzato e fatto nazione.
Ne siamo usciti con vent’anni di dittatura, fine delle libertà civili, analfabetismo diffuso, leggi razziali e una nuova guerra mondiale. Non abbiamo bisogno di un grande lavacro purificatore, ma di imparare a lavarci le mani regolarmente, e a fare regolarmente un sacco di altre piccole cose, tutti i giorni. Abbiamo bisogno di più persone che facciano semplicemente il proprio dovere, invece di lavarsi la coscienza chiamando eroi, angeli, superman quei pochi che già lo fanno, come medici e infermieri oggi schiacciati da carichi di lavoro massacranti, in condizioni limite.
Se ci pensate, il problema principale di questo coronavirus, il motivo per cui ci appare così difficile da affrontare, è proprio questo: che per sua natura non è un nemico che possa essere sconfitto da un pugno di eroi, ma solo da un esercito di persone scrupolose. Non c’è singolo colpo di spada, colpo di genio o colpo di culo che possa batterlo (che sarebbe, spade a parte, praticamente tutto ciò a cui siamo soliti affidarci nei momenti difficili, dal mondiali di calcio alla finanziaria). Non ci sono scorciatoie. Non c’è «mossa del cavallo» – non a caso la metafora più usata nella storia politica italiana, da Vittorio Foa a Matteo Renzi – che permetta di «saltare» il duro, pesante, noioso schieramento delle mille piccole e grandi obbligazioni reciproche da rispettare, dei tanti vincoli di cui tenere conto, di tutto quel complicatissimo intreccio di norme scritte e non scritte che ci impedisce di fare solo ed esclusivamente quel che ci pare.
È questo il vero problema che noi italiani abbiamo con il coronavirus. È questa – prima ancora dell’impreparazione o dell’improvvisazione del governo – la vera minaccia al nostro stile di vita. Il motivo per cui non ci raccapezziamo con l’epidemia è che è un problema collettivo, e noi non siamo una collettività. Tutti gli atti di eroismo, generosità e solidarietà di cui siamo capaci sono naturalmente preziosi, ed è giustissimo esserne fieri. Ma dobbiamo sapere che per uscire da questa tragedia – che è fatta di una crisi sanitaria immediata e di una crisi economica e sociale imminente – non basteranno il grande cuore e i milioni di volontari e tutti gli angeli di questo o di quello pronti a sacrificarsi fino allo stremo.
Servirà la pazienza e la disponibilità, da parte di tutti, a sacrificare qualcosa delle proprie personali esigenze e preferenze, in nome del bene di tutti. Servirà che un numero un po’ più alto di questi nostri concittadini dal grande cuore, oltre a donare meritoriamente tanti soldi per gli ospedali nel momento dell’emergenza, si ricordi pure nel resto dell’anno di chiedere o emettere regolare fattura, scontrino, ricevuta, insomma di pagare le tasse con cui l’intero sistema sanitario è finanziato, e non pretenda domani di essere rimborsato dallo stato – cioè da ciascuno di noi – per perdite superiori a quello che aveva dichiarato di guadagnare nell’intero anno precedente.
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