Pare che il colloquio decisivo di Conte, prima di infilare definitivamente l’Italia nel vicolo cieco della posizione: «Sì agli eurobond, no al Mes», sia stato con il reggente del Movimento 5 Stelle Vito Crimi, che gli ha confermato che ogni cedimento rispetto alla linea stabilita – e imposta senza resistenze al Partito democratico – avrebbe comportato divisioni nei gruppi parlamentari del Movimento 5 stelle e messo a rischio la tenuta della maggioranza.
Crimi nella storia politica italiana ha avuto la fortuna ricorrente di essere l’uomo sbagliato al posto giusto: dalla decapitazione in diretta streaming di Bersani, come capogruppo al Senato nel 2013, alla successione burocratica di Di Maio, come componente anziano del collegio di garanzia del M5S, passando per l’indimenticato ruolo di sottosegretario all’editoria e per la sua campagna per la chiusura di Radio Radicale, che gli guadagnò da parte di Massimo Bordin l’appellativo pertinente di “gerarca minore”, una sorta di Starace del grillismo declinante, ma, a differenza dell’originale, miracolato dal destino.
Nondimeno la parola di Crimi conta, in quanto autorizzato prestanome del Di Maio finto dimissionario ai vertici di un partito dimezzato, ma non squagliato e di nuovo protagonista in un populismo rimontante e trasversale. E la parola di Crimi detta legge nel ribadire che il solco tracciato da Salvini – il Mes non serve all’Italia ma alle banche tedesche e qualunque finanziamento europeo che non sia gratis per l’Italia è una congiura anti-nazionale – deve continuare a essere difeso dalla spada della maggioranza giallorossa.
In questo Crimi è in buona e abbondante compagnia. Il programma del Conte II non è di discontinuità rispetto a quello del Conte I. È nella sostanza un programma di continuità sovranista e populista temperato dal birignao istituzionale e da una retorica “anema e core”. Il programma di Salvini, ma senza Salvini. Dalla felpa alla pochette. Ma la politica europea rimane quella della recriminazione ipocrita sulle colpe di Bruxelles, del disconoscimento della solidarietà passata, presente e futura, del vagheggiamento di un «faremo da soli», che è un’ideazione suicidaria erotizzante, ma pur sempre esiziale negli esiti politici.
Sciascia fa dire in Una storia semplice a vecchio professore di lettere, rivolto a un allievo divenuto procuratore della Repubblica, che si vantava del successo guadagnato nonostante le insufficienze in italiano: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto».
Anche le regole e il lessico dell’Unione europea, la lingua comune disprezzata dai cantori dell’eccezionalismo tricolore, sono un “ragionare”, il cui ripudio non affranca da alcuna schiavitù, né libera da alcuna costrizione, anche se spiana la strada di un successo e di un potere incontrastato. Crimi, nella sua modestia, nel suo essere il prototipo dell’uomo e del pensiero qualunque, è anche in fondo il personaggio più rappresentativo del nostro “sragionare” politico e il campione mediocre dello spirito della nazione.
In questo spericolato sragionare, non c’è vincolo di coerenza, né principio di non contraddizione. C’è la totale fungibilità di ogni argomento o pretesto per suffragare una verità conforme al racconto colpevolistico e auto-assolutorio di chi pensa che i debiti siano solo la prova del nostro debito con la sorte e i crediti altrui – anzi i crediti dovutici – sia un risarcimento per il danno subito e per i torti patiti.
Solo in questo “sragionare”, che è di massa e dunque di successo, il Governo Conte II può stare sotto scacco della retorica di Salvini e Meloni contro «gli avvoltoi» e gli «usurai» europei e contro il «furto del Mes», legato al fatto che i suoi finanziamenti (ma pensa un po’) dovrebbero poi essere restituiti.
In questo soccorre il super-europeismo in salsa sovranista di uno come Crimi e del suo M5S “tendenza Ventotene”, che diventano paradossalmente credibili in questo gioco di specchi proprio per il fatto di essere stati un politico e un partito furiosamente schierati per l’Italexit, entrati due volte in Parlamento raccogliendo le firme su un referendum per l’uscita dall’unione monetaria, in cui l’Italia aveva – Crimi dixit – «ceduto la sovranità ai soprusi della Bce».
Chi in questo “sragionare” può fare propria la bandiera degli eurobond, che implicano un bilancio comune più solido, un trasferimento di sovranità fiscale e economica da Roma a Bruxelles, una condizionalità più forte e più europea nell’utilizzo dei fondi comuni? Chi, se non chi vuole l’esatto contrario delle premesse di ciò di cui gli eurobond dovrebbero essere la conseguenza?
Un governo che obbedisce a Vito Crimi è un governo guidato da un gerarca minore