La Camera dei deputati ieri ha dato una pessima immagine di sé. Pessima e paradossale. C’erano un’importante votazione su un ordine del giorno di Giorgia Meloni – poi bocciato dall’aula – che aveva l’intento di spaccare la maggioranza sul famoso Mes. La leader di Fratelli d’Italia ha chiamato a raccolta i suoi deputati, cosa che ha obbligato gli altri gruppi a chiamare i loro («per legittima difesa», l’ha definita Stefano Ceccanti, Pd) con il risultato di determinare un affollamento dell’aula come nelle grandi occasioni: ovviamente, con tanti saluti al distanziamento sociale, che pure i politici raccomandano (giustamente) agli italiani a ogni ora del giorno e della notte.
Alla prima votazione importante dunque sono saltati gli accordi sull’autoriduzione concordata del numeri di deputati per ogni gruppo, accordi fondati su un gentlemen agreement che non è stato rispettato alla prima occasione importante. È stata la rappresentazione plastica di come la pandemia sanitaria stia creando una patologia istituzionale.
La situazione è grottesca: da due mesi sono cambiate le regole fondamentali per 60 milioni di italiani ma non per i 630 deputati (e naturalmente i 315 senatori), senza capire che anche in Parlamento bisogna cambiare molto, sapendo che questa situazione potrebbe durare un anno, forse due, chi può dirlo. Ma Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati finora non sono stati in grado di organizzare i lavori al tempo del Coronavirus, e con loro ovviamente tutti coloro – le centinaia di persone dell’apparato parlamentare – che sono chiamati a far funzionare la massima istituzione della nostra democrazia.
Ovviamente in questa situazione cresce l’idea di un Parlamento inutile, anzi, d’impaccio, come si va predicando in Ungheria o dalle parti della Casaleggio Associati: un rischio mortale, evitabile solo se il Parlamento stesso sarà in grado di autoriformarsi.
L’impressione tuttavia è che la lentezza produca lentezza, in un circolo vizioso dal sapore weimariano, che nessuno pare in grado di spezzare. Eppure giuristi di varie tendenze stanno producendo materiali interessanti: varcheranno il portone di Montecitorio e palazzo Madama?
Dopo la sconcertante decisione di Fico del 5 marzo di convocare l’Aula solo di mercoledì – una totale abdicazione del ruolo della Camera – due giuristi, Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani, scrissero: «Discutere e approvare le leggi a distanza sarebbe possibile con l’introduzione in via eccezionale del voto telematico. Le commissioni potrebbero riunirsi in remoto almeno per esaminare i decreti e, con un po’ di fantasia, forme di smart working sono immaginabili per le altre attività delle Camere».
Votare da remoto sembra infatti un’assurdità solo per chi ha una concezione statica, ottocentesca, del Parlamento. Che considera la “presenza” un fatto strettamente “fisico”. Ma se permettete l’excursus, già cent’anni fa Marcel Proust nei “Guermantes” scriveva parole bellissime sul fatto che la presenza può essere anche non materiale, come la persona che chiamiamo al telefono è improvvisamente trasferita, grazie a un codice numerico composto su un disco rotante, tradotto in impulsi elettrici, «a centinaia di leghe di distanza, presso il nostro orecchio».
È una pagina famosa, richiamata dal filosofo Massimo Adinolfi a sostegno della tesi che la “presenza” del parlamentare può essere garantita anche per via telematica. Al telefono – scriveva Proust in un tempo in cui esso era quello che per noi è il pc – «diventiamo simili a quel personaggio della favola in cui una fata, sulla semplice formulazione del desiderio, fa comparire in una luce soprannaturale la nonna o la fidanzata […]. È lei, è la sua voce che ci parla, che è presente…». Conclude Adinolfi: «Dopo tutto, se il problema è l’Aula vuota, e già rimbombano i rimbrotti di Bruno Vespa contro un Parlamento convocato solo un giorno a settimana, non sarà meglio teleriempirlo, che vederlo fisicamente svuotato dal coronavirus?».
Ha poi notato il giurista Francesco Clementi: «Certo, il voto a distanza sarebbe un’autentica novità per noi (nonostante sia già presente in realtà anche vicine, come la Spagna). E il Parlamento – basta la parola – non è un semplice votificio. Ma senza votazione non c’è Parlamento. Ed il voto a distanza è meglio del non voto (o di una continua reiterazione)».
Dunque, mentre a Westminster e alle Cortes si provvede a innovare le procedure, a Montecitorio la vita scorre lenta. Nella riunione della Giunta per il regolamento del 31 marzo, dunque in piena emergenza, Fico aveva detto che «un percorso di riforma del Regolamento per risolvere le questioni poste dall’emergenza è evidentemente difficile e complicato da affrontare – e concludere – nel pieno della grave emergenza in corso: ma avviare la discussione del tema, senza pensare di poterla concludere in pochi giorni, è senz’altro utile ed anzi necessario».
Perché in un mese non si è fatto niente? Si conta di fare qualcosa? Mentre tutti gli italiani si rompono la testa per sopravvivere nell’era del Covid 19, qualche innovazione la possono ben fare anche i nostri parlamentari. Su, onorevoli, un po’ di coraggio. Prima che sia troppo tardi.
Il Parlamento deve funzionare da remoto, prima che sia troppo tardi