Chi non ha figli, non trova irresistibili e non sa trattare con i bambini altrui forse lo può capire meglio di tutti. C’è qualcosa di intollerabile nel cerimoniale con cui ogni volta, come tanti ospiti beneducati costretti ad ascoltare la poesia, la suonata o altra alzata d’ingegno del pupo di casa, gli italiani devono sorbirsi non solo le continue conferenze stampa di Giuseppe Conte, ma anche la loro attenta, compita e immaginifica esegesi da parte di osservatori e commentatori. Come se fosse una cosa seria.
Nella sua ultima e originale forma di comunicazione inaugurata giovedì sera – la conferenza stampa senza stampa, e in fondo senza nemmeno la conferenza: due minuti e tre secondi in tutto, praticamente un vocale – Conte è riuscito a smentirsi per ben tre volte consecutive, in media una ogni quarantuno secondi, battendo ogni record precedente (va anche detto che i record precedenti erano tutti suoi).
La prima ripetendo praticamente le stesse cose che aveva scritto su facebook, nel post di poche righe in cui annunciava «maggiori dettagli in conferenza stampa»; la seconda sostenendo che fosse una clamorosa vittoria l’esito che tutti i commentatori avevano previsto da almeno due settimane, non foss’altro perché era più o meno quello che il ministro Roberto Gualtieri aveva ottenuto il 9 aprile; la terza provando a rifilare come novità «impensabile sino adesso» uno strumento – il Recovery Fund – che nelle settimane precedenti era stato pensato e presentato in tutte le salse.
Peraltro dalla Francia, mica da lui (lui, nel cuore dell’ultima trattativa, ha ottenuto in compenso che venisse definito «urgente e necessario», nientedimeno!).
Visto il gran casino che si è fatto al riguardo, ecco un breve riepilogo delle dichiarazioni ufficiali pronunciate dal nostro presidente del Consiglio nel corso delle ultime tre settimane.
6 aprile. Conferenza stampa. «Mes no. Eurobond sicuramente sì. Il Mes è uno strumento assolutamente inadeguato, gli eurobond invece sono la soluzione. (…) Sono convinto, lo dico con tutta la responsabilità e la prudenza che mi contraddistingue, che la storia è con noi. E vedremo alla fine la storia quale piega prenderà».
10 aprile. Tweet delle 10.47. «Io ho una sola parola: la mia posizione e quella del Governo sul Mes non è mai cambiata e mai cambierà».
15 aprile. Post su facebook delle 18.44. «Sul Mes sta lievitando un dibattito che rischia di dividere l’intera Italia secondo opposte tifoserie e rigide contrapposizioni. (…) Io, e qui parlo da Presidente del Consiglio e da avvocato, prima di dire se un finanziamento conviene o meno al mio Paese voglio prima battermi perché non abbia, in linea di principio, condizioni vessatorie di alcun tipo. Dopodiché voglio leggere e studiare con attenzione il regolamento contrattuale che condiziona l’erogazione delle somme. Solo allora mi sentirò sicuro di poter esprimere, agli occhi del Paese, una valutazione compiuta e avveduta».
Per quanto lungo e doloroso, il riepilogo era necessario per dare la misura di quanto l’infinita competizione tra populisti di governo e populisti all’opposizione abbia fatto definitivamente deragliare il dibattito, fuori da ogni possibilità di analisi onesta e razionale delle diverse opzioni in campo.
Da mesi, del resto, discutiamo della più grave crisi economica dal dopoguerra come se si trattasse di una vincita al totocalcio, con maggioranza e opposizione che si sfidano in una gara al rialzo a suon di miliardi, salvo poi scaricare qualunque intoppo sull’egoismo e la miopia dell’Europa: un tesoro senza fondo che per qualche misteriosa ragione sarebbe finito nelle mani di questi famigerati olandesi, che non vogliono restituircelo. E poi ci meravigliamo se nei sondaggi gli italiani si dichiarano sempre meno europeisti.
Avere inseguito Salvini sul suo terreno, com’era prevedibile, rende ora tanto più complicato distaccarsene, spiegando come e perché quel che fino a ieri era indigeribile sia diventato di colpo una prelibatezza. Eppure di spiegarlo c’è bisogno, disperatamente, se non vogliamo scivolare di nuovo lungo la china che porta alla fantafinanza leghista dei minibot, dei prestiti alla patria e dell’uscita dall’euro. Perché l’appartenenza all’Unione europea e all’area euro è praticamente tutto ciò che ancora ci tiene al riparo – ma chissà per quanto tempo, di questo passo – da una crisi di tipo venezuelano.
Ora che l’ultima euro-giravolta è stata compiuta, e al ministero dell’Economia si comincia a parlare di rapporto deficit/pil al 10 per cento, debito al 155 e pil a meno otto, c’è da augurarsi che anche il dibattito pubblico torni a rispettare il principio di realtà. La festa populista è durata anche troppo. Abbiamo atteso pazientemente che Conte finisse di recitare la sua filastrocca sul Mes che non è il Mes e il Recovery Fund che è tutto merito suo. È venuto il momento di mandare a letto i bambini e cominciare a fare sul serio, prima che sia troppo tardi.
La festa euro-populista è durata anche troppo, ora anche basta