Sotto la pressione dell’epidemia molti si aspettavano uno sfarinamento della coalizione di governo, e invece succede il contrario. A sorpresa il virus spazza il campo dell’opposizione, ne scompagina gli equilibri, ne divide i leader. Ieri nel primo pomeriggio Giorgia Meloni ha schierato i suoi deputati e senatori sotto la sede del governo per la protesta pubblica che poche ore prima aveva negato a Matteo Salvini («Sarebbe pericolosa»): mascherine, distanziamento, tricolori e grandi cartelli che elencavano le categorie minacciate dalla crisi, dai parrucchieri agli agriturismi. Non è più il vecchio «marciare divisi per colpire uniti» ma un «marciare divisi» e basta. Ciascuno con i suoi obbiettivi, ciascuno con il suo piano per la Fase 2 e soprattutto per la Fase 3, quella della riapertura del Parlamento e delle campagne elettorali.
La solitaria manifestazione di Fratelli d’Italia è un atto politico che lascerà il segno sotto diversi profili. Il primo è strettamente personale. Un partner che sconfessa la tua chiamata alla piazza e poche ore dopo la convoca per conto suo susciterebbe irriducibili rancori anche in politici meno fumantini di Salvini. Ma non solo.
La sfilata di cartelli che Giorgia Meloni ha esposto a favore di camera, col minuzioso elenco di tutte le attività del commercio e dei servizi “punite” dalla programmazione del reopen, concretizza una vera e propria sfida sul terreno della rappresentanza. Il sottotesto è chiaro, anche se non esplicitato: il partito del Nord ha tutelato l’industria e l’impresa (che tornano al lavoro), noi daremo voce a tutto il resto, a quell ’enorme pezzo di Italia che resta ferma e non ha avuto voce ai tavoli perché nessuno lo ha difeso.
Sotto il profilo del consenso immediato è assai dubbio che l’operazione funzioni. Nella diretta Facebook di ieri era sorprendente la massa di commenti critici o del tutto negativi, molti dei quali usavano l’argomento della risalita dei contagi in Germania per contestare la richiesta di un più rapido “liberi tutti”. Anche nella bolla dell’opposizione, insomma, emerge una maggioranza di spaventati e confusi che preferisce affidarsi alla prudenza piuttosto che rischiare.
Non solo: la libertà di movimento dei parlamentari da un po’ fastidio: in tanti citano le multe folli di questi giorni e scrivono: «Perché voi siete esentati dai controlli?». Ovviamente ci sono anche gli incoraggiamenti e i battimani, ma la conta dei pro e dei contro probabilmente non interessa a FdI in questo momento.
Quel che vale è essersi messi alla testa della ventata di populismo prossima ventura, quella che diventerà concreta a breve, appena finito il lockdown, con la conta dei disoccupati e delle attività chiuse per sempre e l ’inevitabile impoverimento di fasce larghe delle famiglie italiane.
Così come Matteo Salvini fu il campione nella stagione della lotta all’immigrazione e ai profughi, Giorgia Meloni si intesta fin da ora la primogenitura sul terreno delle rabbie sociali che immagina agiranno in giugno, in luglio, al più tardi in autunno, quando i dati sul decremento del Pil diventeranno carne e sangue nel corpo del Paese, prestiti insoluti, bollette non pagate, sfratti, figli ritirati dall ’università, consumi ridotti al minimo essenziale, serrande abbassate.
A incoraggiarla c’è una popolarità crescente nei sondaggi e il maggior riguardo con cui è stata finora trattata dal mondo dei media, che da sempre sottolinea la differenza fra il suo radicalismo politico e l’estremismo scaciato del Capitano.
Per il governo e per il Paese si profila, insomma, un problema finora scarsamente considerato ma pesantissimo nei tempi medi. Un conto è stato governare la serrata in un clima di sostanziale tregua, ma tutt’altra storia sarà guidare il Paese se, sul fertile campo di un’Italia stordita dal virus, si apre la gara populista a chi grida e mobilita di più.
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