Nostra intervista al “decoratore” di Valentino e non solo: dalle moto agli yacht, sci e ciclismo. “Tutto è cominciato con il più veloce di tutti, Graziano Rossi. Diffondo il mio artigianato di qualità made In Romagna”. Fino al 3 giugno a Milano
Immaginate di sentire e veder passare una moto ad alta velocità con il suo rombo e la sua scia di colori e luce. Vroooom! Questa è la sensazione che si prova nell’ammirare i disegni dei caschi variopinti che raccontano la storia delle ultime stagioni della Moto Gp, dagli anni ’80 fino a oggi. Aldo Drudi ne è l’autore. Ha inventato una nuova forma creativa, legata alla ricerca tecnologica, e da qui ha allargato il raggio d’azione misurandosi in altri sport e in altre forme di cultura. Dalla sua quarantennale esperienza è nata una mostra, aperta al Museo Nazionale della scienza e della tecnologia di Milano fino al 3 giugno, che è intitolata “i colori del Motomondiale” e che presenta appunto le creazioni del designer già vincitore di un Compasso d’Oro.
Aldo Drudi, partiamo dall’inizio: ci spieghi le origini di questa sua passione.
“È nata dall’acquisto di una moto da corsa, un fatto abbastanza consueto tra la Romagna e le Marche, a Cattolica, per un ragazzo come me in quei tempi. Erano gli anni ’80, giravamo in moto sulla costa romagnola e giravamo le discoteche. Io e Graziano Rossi, per me il pilota più forte e più veloce di sempre. La velocità che lui esprimeva, la condividevo e mi ispirava. Non c’erano gli smartphone e i social, la sua popolarità era più che altro locale. Ma Graziano era un grande personaggio, quello che noi chiamavamo un “matto”, un istrione. Nel frattempo Giancarlo Morbidelli avviava a Pesaro la sua attività e mi chiamava a collaborare, mentre lo stesso Graziano iniziava a correre con quelle moto. E così decorai il primo casco di Graziano Rossi. Coincidenze favorevoli. Parliamo di quarant’anni fa, oggi Valentino raccoglie i frutti di tutto ciò”.
Il mondo del motociclismo in quegli anni fa pensare a un grande film con protagonisti straordinari. È così?
“Sì, c’erano personaggi speciali di cui divenni amico. Praticamente tutti. Da Lucchinelli a Reggiani. O come il toscano Alex Gramigni che con l’Aprilia vinse il primo mondiale 125 indossando un casco Drudi Performance. E poi anche fuori dall’Italia, da Schwantz a Doohan, agli spagnoli, a Capirossi, Biaggi e tutti gli altri. Il motociclismo regalava sentimenti speciali. Era un mondo romantico. Oggi è cambiato molto, ma certi gesti hanno conservato interamente il loro valore. Quando sei in pista, quando sei sulla linea di partenza, il colpo d’occhio, l’adrenalina, il semaforo verde… Certe cose sono immutate”.
Sono le sensazioni che hanno segnato gli inizi della sua carriera di disegnatore?
“La passione è sempre alla base, poi c’è la capacità innata di disegnare oltre a un senso critico rivolto anche a me stesso. E infine il coraggio di noi romagnoli che come diciamo… Se vediamo un pallone, gli diamo una “spallonata” ma poi andiamo anche a riprendercelo, quel pallone. Ovvero, osiamo e rischiamo ma senza perdere il controllo. Io dal settore moto sono voluto uscire per guardare anche fuori. Ho seguito molti sciatori, ho lavorato con Pantani, poi con Dainese abbiamo fatto tanti lavori e vinto il Compasso d’Oro, che è come un Oscar, per le tute T-Age. Quello del motociclismo in realtà è un mondo complesso, dove lo sviluppo delle tecnologie è costante. Una scuola essenziale che mi ha permesso di avventurarmi in altre discipline”.
Ha mai pensato di avventurarsi nella Moda?
“Mi è capitato, ma il fashion richiede un approccio diverso. Che forse mi ispira meno. E poi siamo realisti, io so di essere un artigiano. Magari qualcuno dirà che sono anche bravo, ma non potrei fare tutto. A meno che non ci sia un link, un punto di contatto. E comunque ci vuole anche un’altra cosa. Ci vuole…”.
La buona sorte?
“Chiamiamola così. Ma sono consapevole di essere capitato nel posto giusto al momento giusto. Ho disegnato i miei caschi, ho costruito moto, ho progettato un aereo. Se ho potuto fare tutto questo è stato anche perché la fortuna mi ha aiutato”.
Fortuna, creatività e competenze tecniche: è questo il suo segreto?
“Ci muoviamo tra tecnica, tecnologia e design. Studiamo l’ergonomia per le nostre protezioni, le decoriamo sapendo che devono essere anche confortevoli. Un mio insegnante a Firenze diceva che l’uomo, abituato nella notte dei tempi a correre con arco e frecce all’inseguimento di una preda, poteva andare al massino a venti chilometri all’ora. Per le velocità superiori servono protezioni. Il concetto è giusto: noi ci ispiriamo sempre prima di tutto ai dettami della Natura”.
Anche per la scelta dei colori e dei disegni sui caschi?
“Certo. Ci sono i trend, chiaro, che tornano ciclicamente. Ma alcuni concetti di base resistono: i guerrieri che si dipingevano il volto o abbellivano i loro scudi con ornamenti o segni grafici lo facevano per sembrare più forti, per fare paura ai nemici. La stessa cosa vale per questi caschi…”.
Torniamo al motociclismo: il romanticismo resiste, ma oggi i piloti sono cambiati?
“La vita nei paddock è sicuramente peggiorata. Si sono alzate barriere, ci sono limiti che una volta non esistevano. Anche tra piloti. La rivalità è quella di sempre, ma una volta aveva un diverso sapore. Non è nostalgia questa, è l’osservazione di uno specchio che riflette le caratteristiche della nostra società. Nelle persona della mia generazione non c’è nostalgia, ma la testimonianza di una realtà che il progresso tecnologico ha mutato totalmente. E questo progresso dobbiamo cavalcarlo, come una moto, non subirlo”.
C’è qualcuno che nel suo campo ha provato a farle concorrenza?
”C’è un nostro alter ego americano, Troy Lee, che però ha puntato tutto sulla vendita. Noi restiamo artigiani, come detto. E poi abbiamo un vantaggio su tutti gli altri: noi siamo italiani. Respiriamo cultura, viviamo nell’arte. Ci portiamo dietro anche inconsciamente il concetto stesso di bellezza e lo esprimiamo in vari modi e in diversi settori”.
Non crede che queste peculiarità siano sempre meno tutelate da noi stessi che viviamo in Italia?
“Purtroppo sì. Dobbiamo fare attenzione ai dettagli. Faccio un esempio. Nel mio ufficio non ho computer. Sono figlio della mia terra e della mia nazione, voglio e devo filtrare la realtà con le mie conoscenze. Per essere sempre me stesso. Non ho il computer perché voglio che lo sviluppo di un’idea non sia condizionato o inquinato. I computer sono fuori dal mio ufficio, so come funzionano e sono essenziali. Ma non so neppure accenderli. Non voglio essere standardizzato. E cerco sempre nuove sfide”.
Da qui anche l’idea di allestire questa mostra sulla sua attività?
“La mostra testimonia la volontà di uscire allo scoperto. Per vedere se e come gli anni del nostro lavoro vengono riconosciuti. Vedere se e cosa accade a Milano, fuori dal nostro contesto, se il nostro artigianato di qualità (con un approccio artistico) verrà capito e apprezzato”.
Il prossimo progetto?
“Da domani, 10 maggio, saremo a Viareggio, al Versilia Yachting Rendez-Vous con un nostro scafo da 17 metri, Anvera 48, in fibra di carbonio. Una specie di Porsche su acqua… “.
E poi?
“La voglia di ripartire da un foglio bianco. Una tela anonima, senza un argomento. Cominciare da lì e allestire una mostra sul fascino del manufatto”.
Ma poi non sarà ancora finita, c’è da scommetterci. A presto e grazie, Aldo Drudi.