Come ha sottolineato il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, i fondi europei «andranno pagati e per questo devono essere spesi bene, in infrastrutture e progetti utili», senza «perderli in rivoli». Anche l’allora ministro del Bilancio Luigi Einaudi nel 1948 disse che il denaro del fondo-lire doveva necessariamente servire a opere di ricostruzione
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In un Paese che stenta a trovare la bussola per la ripartenza ed in cui gran parte della classe politica continua a progettare interventi con l’occhio rivolto alle prossime scadenze elettorali e, addirittura, all’elezione del Presidente della Repubblica nel 2022, fa bene il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco a sollecitare tutti ad una prova di realismo e concretezza.
Fondi europei non gratuiti
Già in apertura degli Stati Generali voluti dal premier Giuseppe Conte, Visco aveva detto che i fondi europei, di cui tanto si discute, «non potranno mai essere gratuiti». E conclusa a villa Pamphili la fase «progettante» dell’avvenire, ecco il nuovo richiamo: i fondi europei «andranno pagati, resterà su di noi il pagamento e per questo devono essere spesi bene, in infrastrutture e progetti utili», senza «perderli in rivoli», e l’Italia «deve avere la capacità di spenderli».
Le pretese del debito senza condizioni
La storia passata, recente e attuale dimostra che su questi terreni l’Italia è spesso scivolata e che alle promesse e agli annunci non ha fatto seguire i fatti. Oggi, per di più, contribuisce in negativo una certa atmosfera politico-culturale, già affermatasi prima del coronavirus e poi rafforzatasi dopo la violenta crisi che ne è derivata. Quella del debito “a gratis” e senza alcuna condizione, elevata a sostegno di ogni richiesta e dietro la quale il problema è la distribuzione del reddito, non la sua creazione e allargamento e, tanto meno, l’efficacia delle misure prese.
Le analogie con il piano Marshall
Per certi aspetti, fatte le dovute differenze storiche e politiche e il diverso spirito di coesione sociale dimostrato allora, il tema si pose anche nel secondo Dopoguerra, ai tempi del famoso piano Marshall finanziato dagli Stati Uniti. All’Italia andarono un miliardo e mezzo di dollari, la stragrande maggioranza dei quali a titolo di sovvenzioni e una piccola quantità come prestiti. L’operazione politicamente lungimirante (spinta verso una federazione economica europea) fu decisiva per la ripresa dell’Italia. Ma non tutto filò liscio, come dimostra il Country Study, il rapporto Hoffaman del 1949 dove accanto agli elogi comparivano anche diverse critiche: l’incapacità di formulare piani e direttive per assicurare la realizzazione della politica economica e nel ricostruire l’attrezzatura burocratica, la necessità di un’attrezzatura amministrativa indipendente dai principali ministeri, la necessità di uno stato maggiore professionale e tecnico con ottima preparazione, l’assenza di un organo governativo atto a tracciare una linea di condotta per lo sviluppo economico in un programma a lunga scadenza.
L’intervista di Einaudi
Un anno prima, nel 1948 in un’intervista a Il Tempo, era stato l’allora vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio Luigi Einaudi, in precedenza dal 1945 Governatore della Banca d’Italia, a spiegare il Piano Marshall come «una medaglia a due facce». La prima quella “dono” di prodotti per la ripresa, indispensabile per l’Italia (per circa 400 miliardi di lire al cambio di allora) e la seconda quella «dell’uso imposto al Tesoro italiano per il ricavato della vendita dei prodotti ricevuti perché gli Usa ne chiedono il pagamento». Già, ma allora che dono è? Ecco il botta e risposta testuale dell’intervista a Einaudi, per molti aspetti ancora attuale oggi.