Pubblicato il: 26/07/2020 19:45
(di Paolo Martini) – Olivia de Havilland era diventata una celebrità poco più che ventenne e per oltre 80 anni è stata una leggenda vivente della cinematografia, ultima delle grandi dive dell’epoca d’oro di Hollywood e soprattutto l’ultima sopravvissuta del cast principale di “Via col Vento” (1939), il memorabile capolavoro di Victor Fleming in cui vestì i panni di Melania Wilkes, rivale in amore della protagonista Rossella O’ Hara (Vivien Leigh), conquistando una nomination come miglior attrice non protagonista ma non l’Oscar che andò invece all’attrice Hattie McDaniel (la nera Mamie).
Da interprete di figure femminili dotate di abnegazione e spirito di sacrificio per l’uomo amato, disponibili all’infelicità personale pur di non ostacolare le ambizioni maschili (nei primi film del regista Michael Curtiz), Olivia de Havilland, sondate (nelle opere di Robert Siodmak) le proprie zone d’ombra per costruire personaggi pervasi dalla profonda e segreta frustrazione di non essere compresi e amati, arrivò (con William Wyler) a ricoprire il ruolo di donna impassibile, impietosa e crudele, perdendo la sua aria perennemente smarrita, languida, da educanda.
Le sue interpretazioni come protagonista le valsero due premi Oscar: nel 1947 per “A ciascuno il suo destino” di Mitchell Leisen e nel 1950 per “L’ereditiera” di Wyler. Oltre che per le cronache cinematografiche, Olivia de Havilland è famosa anche per i continui gossip che hanno a lungo circondato la sua carriera per la rivalità con la sorella Joan Fontaine (1917-2013), star della Hollywood degli anni ’40 e ’50 che peraltro vinse prima di lei l’Oscar alla miglior attrice protagonista per la sua interpretazione nel film di Alfred Hitchcock “Il sospetto” (1941), con Cary Grant.
Cittadina inglese, naturalizzata statunitense nel 1941, era nata il 1° luglio 1916 a Tokyo da Walter Augustus de Havilland, avvocato inglese con studio nella capitale giapponese, specializzato in materia di brevetti, e Lilian Augusta Ruse, attrice nota con il nome d’arte di Lilian Fontaine. Poco dopo la nascita della sorella minore Joan, più piccola di 13 mesi, i loro genitori divorziarono quando Olivia Mary aveva tre anni e con la madre lasciò Tokyo per Los Angeles. Iscrittasi al Mills College di Oakland, ebbe modo di esibirsi come attrice partecipando all’allestimento scolastico della commedia “Sogno di una notte di mezz’estate” di William Shakespeare e facendosi notare dal regista Max Reinhardt che nel 1934 la scelse per la sua versione dello spettacolo e l’anno successivo per la celebre, innovativa e visionaria trasposizione cinematografica da lui diretta con William Dieterle.
Fu per questa interpretazione che la Warner Bros offrì a Olivia un contratto di sette anni. Ebbe così modo di interpretare “Alibi Ike” (1935) di Ray Enright, “Colpo proibito” (1935) di Lloyd Bacon e soprattutto “Capitan Blood” (1935), con il quale iniziò il felice sodalizio artistico con il regista Michael Curtiz e l’attore Errol Flynn, che proseguì con “La carica dei 600” (1936), “La leggenda di Robin Hood” (1938) codiretto da William Keighley, “La quadriglia dell’illusione” (1938), “Gli avventurieri” (1939), “Il conte di Essex” (1939) e “I pascoli dell’odio” (1940). Diretta da Curtiz, la giovane attrice diede vita a un personaggio la cui delicata presenza poteva a tratti passare inosservata, proprio perché funzionale alla progressione avventurosa del racconto, caratterizzato da un afflato eroico ed edificante in chiave virile, romantica e patriottica. Sempre in coppia con Errol Flynn, ma con la regia di Raoul Walsh, in “La storia del generale Custer” (1942) Olivia de Havilland definì meglio l’edulcorata tipologia di sposa ideale, pronta per amore a sacrificarsi, essendosi nel frattempo temprata grazie all’interpretazione dell’impeccabile e virtuosa eroina sudista Melania nel magniloquente “Via col vento” (1939) di Victor Fleming, per la quale le venne attribuita la sua prima nomination come migliore attrice non protagonista.
L’attrice nel 1942, venne di nuovo candidata all’Oscar, stavolta come protagonista, per “La porta d’oro” di Mitchell Leisen (il premio andò curiosamente alla sorella Joan Fontaine, per “Il sospetto” di Hitchcock).
Nello stesso anno del melodrammatico “A ciascuno il suo destino” (1946) di Leisen ricoprì un indimenticabile duplice ruolo nel noir “Lo specchio scuro” di Robert Siodmak: il film permise all’attrice di scindersi in modo radicale, rendendo oltremodo riconoscibili e polarizzate le due gemelle interpretate, ciascuna corrispondente agli opposti aspetti di una personalità schizofrenica: la prima, Ruth, con gli occhi sempre bassi, la voce morbidamente querula e i lineamenti mobili da vittima affranta, sintesi della personalità cinematografica delineata in precedenza dalla de Havilland; la seconda, Terry, con il tono deciso e stentoreo della voce, il volto e il corpo rigidi, riflesso di un’immobilità sprezzante, prefigurante invece i futuri personaggi.
Dopo la straordinaria interpretazione, ancora in un ruolo di donna malata di amnesia depressiva, nel crudo dramma “La fossa dei serpenti” (1948) di Anatole Litvak, sua terza nomination, in “L’ereditiera” (1949) di William Wyler fu di nuovo una donna illusa, corteggiata soltanto per bieco interesse. Tuttavia qualcosa era cambiato nella fanciulla delle sintomatiche parabole militariste di Curtiz o di Walsh, ovvero nella dama austera, rinunciataria e consenziente, sorridente suo malgrado, ottocentesca incarnazione di un solido puritanesimo, fisiologicamente e serenamente tradizionalista, spesso caratterizzata da una spiccata vocazione per il vincolo matrimoniale, cui è costretta ad aspirare da potenziale zitella. Come se la mediocre, accomodante e opaca Melania di “Via col vento” si fosse a un tratto evoluta, per istinto o per reazione, in una più implacabile e tragica Rossella, in “L’ereditiera” la de Havilland scioglie, infatti, nel giro di una sequenza la tensione accumulata, abbandona lo sguardo triste, l’espressione tirata e con uno scatto di dignità e di orgoglio manifesta un’insospettabile perfidia, scevra da condizionamenti maschili e legati all’ambiente sociale.
Da quel momento, lasciati emergere gli aspetti più inquietanti e inconfessabili del suo personaggio, l’attrice diradò le apparizioni sullo schermo, trasferendosi a Parigi nel 1955 e sposando il giornalista e scrittore francese Pierre Galante, da cui divorzierà nel 1979 (dal 1946 al ’53 fu sposata con lo scrittore e attore statunitense Marcus Goodrich).
Tra le interpretazioni successive sono da ricordare: “Mia cugina Rachele” (1952) di Henry Koster, il superlativo e autoironico “Un giorno di terrore” (1964) di Walter Grauman e, al fianco di Bette Davis, il morboso “Piano… piano, dolce Carlotta” (1964) di Robert Aldrich. Tra le ultime apparizioni sul grande schermo “Airport ’77” (1977) e “Swarm” (1978).
Nel 1962 pubblicò l’autobiografia “Every Frenchman has one” (Random House), resoconto spensierato dei tentativi spesso divertenti della diva di comprendere e adattarsi alla vita, alle buone maniere e ai costumi francesi. Nel 2017, per il suo 101º compleanno, la regina Elisabetta le conferì l’onorificenza di Dama dell’Impero Britannico.
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