ROMA – La Tesla di Elon Musk è l’affare della vita. Per chi ci ha creduto, s’intende. Come quel piccolo investitore che un giorno di giugno del 2010 decide di allargare il proprio portafoglio azionario alla ricerca di una novità. Può essere l’azienda californiana di auto elettriche, creata nel 2003, che ci ha messo ben cinque anni per produrre il suo primo modello e sette per quotarsi in Borsa a Wall Street? Quel giorno, in apertura a New York, un’azione Tesla valeva 17 dollari: investendone mille, se ne mettevano in tasca 58. Il primo luglio scorso, l’azione di Musk ha chiuso a 1.119,63 dollari – oltre il 4 mila per cento di crescita – portando la capitalizzazione a 209 miliardi di dollari e facendo accadere un’altra cosa fin lì impensabile: diventare prima al mondo per valore, con sorpasso su Toyota per circa 6 miliardi in più.
Ma al felice investitore da 17 dollari ad azione probabilmente questi record non interessano. La Borsa, si sa, dà e prende alla velocità della luce, e poco importa se un giorno il colosso giapponese torna in vetta e poi magari viene superato ancora su una curva stretta, “and so on” come dicono gli americani. Certo, il titolo continua a correre: il 22 luglio scorso, alla seconda trimestrale dell’anno in utile (e quarta di seguito) nonostante gli effetti della pandemia, l’azione Tesla è schizzata a 1.650 dollari per ben 300 miliardi di capitalizzazione. E siccome i numeri alla fine contano, il nostro investitore se la ride mentre scorre gli indici al telefono sotto l’ombrellone e gli capitano sott’occhio anche quelli degli altri: per dire, nel 2019 anno fiscale che per i giapponesi è finito il 31 marzo 2020, Toyota ha venduto nel mondo 10,46 milioni di veicoli per un fatturato pari a circa 281,20 miliardi di dollari, mentre Tesla (al 31 dicembre scorso) ha consegnato globalmente 367.200 vetture per un fatturato di 24,6 miliardi di dollari. Tesla, cioè, ha fatto circa il 3% delle vendite e meno del 10% di fatturato rispetto al gruppo jap: un rapporto pazzesco di cui Wall Street, di nuovo innamorata del marchio e del suo visionario pilota, se ne sbatte.
Di Elon Musk si sa tutto, anche perché usa Twitter in modo quotidiano e imprevedibile quasi come il presidente Donald Trump. Se non ci fossero loro due chissà come sopravvivrebbe l’azienda social di Jack Dorsey, anche se l’imprenditore nato in Sudafrica non nasconde il suo fascino per la carta: le due interviste più esaustive e complesse le ha date al New York Times nel 2016 e il mese scorso.
Ma è su Twitter che comunica in modo spericolato: un giorno ci dice che potrebbe portare via Tesla dalla Borsa oppure che “vale troppo”, ora butta lì che le piramidi in Egitto sono state costruite dagli alieni facendo infuriare gli archeologi di mezzo mondo, un altro che ci vedremo tutti su Marte. Oppure parla di un sensore da mettere nel cervello per collegarsi a un computer o rilancia una vendita online di short di raso rosso da donna a 69,42 dollari, intasando il sito e lasciando invendute solo taglie XL. In piena estate, Musk sembra insomma uno che riuscirebbe a piazzare qualsiasi cosa, altro che macchine elettriche. È un vero fenomeno di costume, prima che imprenditoriale. Ma bisognava averlo capito prima, invece di aspettarsi che lui con Tesla si sarebbe comportato come un qualsiasi altro costruttore di automobili. Elon Musk è il Bob Dylan dell’auto, rileggendo quanto ha scritto un giorno il cantautore più noto d’America: “Il futuro per me è già una cosa del passato”.
La Borsa di Wall Street si è di nuovo innamorata di questo manager di 49 anni – di cui 17 da ceo di Tesla, ecco chi è il più longevo nell’industria dell’auto – anche per come è sopravvissuto agli effetti della pandemia. Ha infilato quattro trimestrali in positivo dopo aver perso montagne di soldi quando il coronavirus non esisteva – al contrario dei costruttori rivali, oggi tutti in pesante affanno – ha insultato (via Twitter) chi aveva paura del virus, poi ha riaperto la sua fabbrica a Fremont in California contro le regole del lockdown e il plauso indiretto di Trump. Con il presidente repubblicano c’è feeling: più che mai dopo che a Cape Canaveral Space X, un’altra società guidata da Musk, ha dato spettacolo mondiale con il lancio del suo Dragon insieme alla Nasa, riatterrato con successo all’inizio d’agosto.
Perfino Tesla sembra adesso ben piantata con i piedi per terra dopo essere stata ad anni alterni sull’orlo della bancarotta. Qui continua a succedere di tutto: in giugno a Musk è bastato dire che il suo nuovo camion elettrico Semi è pronto – anche se la fabbrica ancora non esiste – perché l’azione infrangesse per la prima volta il muro dei mille dollari. Una mano gliela danno i ricchi cinesi che comprano forte le sue auto elettriche costruite ormai anche a Shanghai, un’altra la Germania dove sta nascendo la prima fabbrica europea di Tesla, schiaffo elettrico ai padroni di casa che sull’auto a batteria sono stati costretti a inseguire. La verità è che Tesla nel suo piccolo è già quello che tutti i grandi costruttori vorrebbero un po’ essere: produttori coccolati in Borsa di auto a zero emissioni e a guida autonoma (livello 5 entro l’anno, spara adesso mentre altri frenano), di batterie in proprio come avviene nella Gigafactory Tesla in Nevada, con fan adoranti nel mondo disposti a quasi tutto.
È proprio un’altra narrazione, aspettando il 15 settembre quando Musk dovrebbe presentare agli investitori una nuova batteria da “un milione di miglia”, l’accumulatore per auto elettriche più longevo della storia. Cosa che sarà già passata, perché a quel punto il piccolo investitore da 17 dollari ad azione starà volando verso qualche ricco altrove.