TORINO – Quello tra Sarri e la Juventus era un matrimonio contro natura che non poteva che finire come è finito: con un divorzio rapido e la colpa addossata all’elemento debole della coppia, che pure è quello che più si è speso per provare a far funzionare il rapporto. Quando un allenatore viene licenziato così in fretta (diverso è quando subentra il logorio del tempo, come con Conte e Allegri), significa che l’errore è a monte perché la società ha evidentemente sbagliato la scelta iniziale, la quale certamente non è stata fatta a scatola chiusa: Sarri ha 61 anni, un profilo umano e professionale ben definito, qualità e difetti lampanti e limiti riconosciuti (d’altronde, nel corso della sua carriera ha avuto degli squilli ma anche cinque esoneri prima di questo), eppure ha finito per pagare il fatto proprio di essere Sarri, cioè di essere esattamente come si sapeva che fosse nonostante abbia rinunciato quasi del tutto agli aspetti tattici del sarrismo, avendo intuito di non poter far diversamente (ci mise poche settimane a dire “scordatevi il gioco che facevo a Napoli”) finendo per adeguarsi ai metodi e allo stile che già c’erano: senso pratico, essenzialità e palla a Ronaldo (o a Dybala). Ne ha ricavato uno scudetto ma non ha lasciato un segno: al quel punto, hanno pensato alla Juve, tanto valeva provarci con un altro, perlomeno più adeguato allo stile del club. Pirlo ha idee calcistiche che si possono definire sarriane, ma un modo di applicarle assolutamente juventino.
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Sarri è deluso non tanto dall’esonero, che anzi alla fine ha vissuto come una sorta di sollievo, quanto dal fatto di essere stato additato come unico colpevole, senza che nessuno abbia fatto cenno al tradimento delle premesse con le quali la stagione era iniziata, e sono temi che investono principalmente il campo extra tecnico. Quando parlò con i vertici juventini per discutere il contratto, infatti, Sarri chiese garanzie soprattutto su un punto, non tecnico né tattico: lui, aveva specificato, non si sarebbe occupato della gestione dello spogliatoio, delle paturnie dei giocatori, del malumore di chi avrebbe giocato poco e insomma di tutte le questioni che riguardano i rapporti con il gruppo, delle quali si è sempre volontariamente disinteressato. “Io voglio allenare e basta”, ha detto a tutte le società che lo hanno ingaggiato, Juve inclusa: senz’altro un limite, per un allenatore moderno, ma in ogni caso una condizione che Sarri ha sempre ritenuto inderogabile, forse anche perché sa che i rapporti umani con i calciatori non sono la sua specialità.
All’Empoli, quella della gestione del gruppo era una faccenda che aveva delegato al diesse Carli. Al Napoli era responsabilità di Giuntoli. Al Chelsea, dove l’assetto societario è molto particolare (il presidente Abramovich è sostanzialmente irraggiungibile per qualsiasi allenatore e di tutto si occupa Marina Granovskaia) e dove non c’è un direttore sportivo vero e proprio, fu Gianfranco Zola a far da tramite tra squadra e allenatore e tra allenatore e società. A Torino, invece, Sarri si è trovato improvvisamente solo. Gli è toccato gestire la questione degli esuberi estivi e i tanti musi lunghi nelle settimane di un mercato incoerente (e su cui lui non ha messo becco: “Quello che dico io conta zero”, sbottò in piena estate), la questione di Emre Can, la cui esclusione dalla lista Uefa fu tutta in carico all’allenatore, e i tanti grandi e piccoli problemi (Pjanic, per esempio, ha attraversato una fase delicata sul piano personale) di un gruppo in cui la vecchia guardia, con l’eccezione di Buffon, gli ha dato pochissimo sostegno. Anzi, c’è il sospetto che qualcuno gli abbia sempre seminato veleno alle spalle. Dopo tutto, Sarri è quello che l’ultima volta che si presentò allo Stadium da avversario inalberò il dito medio ai tifosi bianconeri: è ben difficile che i più juventini tra i giocatori potessero far finta di nulla accogliendo il loro nuovo comandante, che oltretutto ha sì snaturato la sua filosofia calcistica, ma certo non poteva fare lo stesso con la sua essenza umana: nel suo modo burbero e/ colorito di porsi, molti hanno spesso riconosciuto il nemico di un tempo, prima che un nuovo alleato.
Agli occhi della squadra l’allenatore ha perso autorevolezza. Se Ronaldo qualche volta gli ha risposto male (“Non puoi certo essere tu a dirmi come si gioca a calcio”, gli ha sibilato più di una volta quando gli indicava i movimenti che voleva facesse) o lo ha mandato pubblicamente a quel paese, come dopo la sostituzione con il Milan, la società non è mai intervenuta a protezione del tecnico, così come ha permesso che Cristiano disertasse molte esercitazioni tattiche, che riteneva inutili e noiose, preferendo andare ad allenarsi sui calci di punizione (con risultati non dei migliori). Così si è alimentata una spirale negativa: Sarri agli occhi dei giocatori, in buona parte sazi e comunque con un palmares notevolmente superiore al suo (nel calcio le gerarchie le stabiliscono molto spesso i titoli), non era abbastanza autorevole e così le sue richieste tecniche, già complicate dal pessimo assortimento della rosa (un problema su cui si è scornato anche l’ultimo Allegri, anche lui difatti criticatissimo per la pessima qualità del gioco nell’ultima stagione), facevano poca presa sui giocatori che avvertivano la debolezza dell’allenatore, le sue spalle scoperte. Eppure la società sapeva di questa aspetto, ma ha lasciato correre. Così come sapeva com’era il Sarri pubblico, conosceva il suo modo di vestire e di esprimersi, la sua scarsa diplomazia, la tendenza al turpiloquio e in definitiva il suo scollegamento da quello che si usa definire “stile Juventus”.
Sotto questo aspetto, Sarri ha esercitato un forte controllo su di sé: si è contenuto, ha messo la sordina alle sue parole e, soprattutto negli ultimi tempi, era palese il fastidio con il quale doveva gestire le apparizioni pubbliche. Ma anche di questo, la Juve sapeva e non si capisce come immaginasse di cambiare il modo di essere di un sessantunenne che oltretutto soltanto da pochi anni (ad altissimi livelli, da quattro appena) si era trovato al centro dell’interesse mediatico, un circo in cui altri sono praticamente nati e che altri ancora sanno gestire a menadito, traendone i vantaggi del caso. Alla fine, quando Agnelli ha convocato Sarri per comunicargli l’esonero, si è limitato a dirgli che “non è scattata la scintilla”. In effetti no, non c’era molto altro da dire o da fare. Nei tredici mesi juventini di Sarri non c’è stato niente di sorprendente: è stato licenziato perché era Sarri, malgrado fosse Sarri anche quando venne assunto.
Fonte www.repubblica.it