Antibo l’ha chiamato e gli ha detto: “Sono contento che mi hai tolto di mezzo”. In meno di un anno Yeman Crippa ha strappato a Totò di Altofonte i suoi due primati italiani leggendari: 10 mila e 5 mila. Se li è presi entrambi dopo trent’anni: quello dei 10 mila ai Mondiali di Doha dello scorso anno (27’10″76), quello dei 5 mila poche ore fa a Ostrava (13’02″26). Antibo ha aggiunto: “Non credo che ti fermerai qui”. Yeman è un esempio. Non scalpita mai, è ambizioso eppure sorride sempre. Suo padre Roberto, milanese di 53 anni, ci raccontava che Yeman è come i suoi fratelli: “Se dai amore lo ricevi, se offri rispetto rispetto ti tornerà”. E tornando all’atletica: “Più metti e più trovi, Yeman non farà mai una gara anonima”. Lo ha confermato a Ostrava. Roberto, quei ragazzini etiopi, li ha adottati tutti e otto. “Ho una squadra di calcetto in casa, panchina compresa, ma non è stato facile”. Non esistono adozioni facili. Però quasi tutte le adozioni sono emozionanti, hanno dolcezza sufficiente per nascondere il brutto che le genera, come in quei romanzi di Dickens pieni di orfani, vagabondi, adottati, zie immaginarie e padri in fuga: “Io e mia moglie avevamo deciso di adottare tre bambini etiopi, credevamo fossero soli ma non era vero: avevano altri tre fratelli più grandi e ce ne siamo accorti solo contattando i nonni”. Le autorità li tenevano separati nella speranza di agevolarne l’adozione: “Più la famiglia è ampia, più la gioia sale”.
Yeman ha seguito i destini atletici di suo fratello Neka, di due anni più grande e con il quale adesso i rapporti si sono guastati: “Non aggiungiamo altro”, dice Yeman. Atletica come coraggio, responsabilità nella vita e fiducia in se stessi. Roberto è stato l’esempio. I Crippa si trasferirono a Trento. Arrivarono anche i due cugini, orfani come gli altri e come gli altri figli abbandonati e semplicemente sfortunati di quella terra lontana, una terra arida, sospesa tra il magico e l’inospitale, a 300 chilometri da Addis Abeba: “Ci son voluti sette anni per completare le pratiche delle otto adozioni, dal 2002 al 2008”, ricorda Roberto. Pare un tempo infinito, “ma in realtà fu un percorso abbreviato dal fatto che fossero in età pre-scolare”. Tutti i giorni o quasi un compleanno a casa Crippa, a Montagne in Trentino: “E proprio come volevamo io e mia moglie, adesso vivono per conto loro, sono forti, indipendenti, persone vere, intatte”. Chi a Trento o nei dintorni come Mekdes, Mulu, Gadissa, Kelemu. Chi a Milano come Asna, chi a Trieste come Neka, chi è tornato in Etiopia come Elsabet, chi lavora nei luoghi d’origine per restituire un po’ del bene non del tutto ricevuto.
Antibo è stato chiaro: Yeman può scendere presto sotto i 12′ nei 5 mila, che vuol dire toccare con mano l’eccellenza della disciplina. A Ostrava il 23enne delle Fiamme Oro non ha sbagliato nulla: “Sapevo che avrebbero fatto subito un ritmo indiavolato per tentare il primato del mondo (senza riuscirci ma correndo comunque in 12’48″63, ndr). Per me sarebbe stato un mezzo suicidio stargli dietro. Alla fine abbiamo scoperto che avevano comunque fatto un po’ male i conti: quando sono uscite le lepri hanno pure rallentato. Comunque vanno forte sti ragazzi!”. Barega scappa con le tre lepri. Yeman è affiancato da Kiplimo (l’ugandese di Casone Noceto). A vederla, la gara è stata emozionante. Possiamo immaginare a disputarla: “Quando sei lì ci pensi che potresti dare emozione alla gente, ma la verità è che non si pensa ad altro, quando arriva la fatica, oppure quando c’è da lasciarsi un po’ di spazio per ragionare sulla tattica”. Baby Kiplimo, un Millennial di novembre del 2000, avrebbe vinto.
Anno difficile, ma forse anche stimolante per questo. Come si arriva a un leggendario primato italiano in una stagione pazza come questa?
“Sì, anno tremendo. Riuscire a fare un record quando sembra che la cosa più complicata non sia gareggiare ma restare in piedi è una soddisfazione veramente unica. Senza motivazioni supplementari o grandi appuntamenti in vista, con cancellazioni ovunque, inclusa l’ultima degli Europei di cross a Dublino, originariamente previsti per il 13 dicembre, ci vuole una benzina forte per crederci. Io e il mio coach Massimo Pegoretti ci siamo guardati in faccia: e adesso che facciamo? Non restava che continuare ad allenarsi, a prepararsi, magari per sfide immaginarie. Il gioco era questo. Proviamo a migliorare. E così abbiamo curato con maggiore attenzione alcuni aspetti, come la velocità, le andature, la palestra, la tecnica di corsa”.
Non è facile pensare a un mezzofondista che si allena per la velocità. Cos’è la velocità per un mezzofondista?
“Sono allenamenti su distanze corte con recuperi lungo per garantire la massima qualità durante le prove. Prove che sono cose tipo: 14 volte i 200 in 25″ oppure scalette 600-500-400×4, 10 volte i 300”.
Infatti si è visto nel finale di Ostrava, si è visto nell’ultimo giro chiuso in 61″, nelle gambe ancora presenti, nella volontà per nulla scalfita dal peso dei chilometri.
“Ero arrivato al capolinea, non credo di poter avere dei rimpianti. D’accordo, mancava poco per andare sotto il 13″, ma c’è tempo per scendere. E poi a Ostrava ero da solo, fossi stato con qualcun altro magari ci saremmo aiutati a vicenda, da solo era impossibile fare di più”.
E l’uomo (il giovane uomo) Crippa come ha vissuto la pandemia?
“Male, ma con coraggio. Pensavo a chi stava peggio di me. E ce n’erano. In qualche modo, diciamo a modo mio, ho cercato di vedere un lato, un briciolo di lato positivo del lockdown…”.
Cancellare tutto, ma non l’atletica.
“A volte pensavo: ma che mi alleno a fare? Poi ripensavo: in fondo le Olimpiadi ci saranno l’anno prossimo. Quindi mettiamoci sotto. Il percorso è lungo”.
C’è una differenza tra il record di Doha nei 10 mila e quello di Ostrava nei 5 mila?
“Gli elementi in comune sono tre: io, Antibo e la durata dei vecchi record: 30 anni. Per me comunque è stato più bello quello dei 5 mila, perché lo cercavo da tempo, ho provato più volte tornando sconfitto, insomma era qualcosa che mi sentivo più dentro e adesso è arrivato. Ci sono voluti tanta fantasia e tanto coraggio”.
Ma per scendere sotto i 13′ cos’altro ci vuole?
“Continuare a lavorare così”.
Un’idea per prendersi anche il record dei 1500?
“No, ho tentato con quello del miglio. No, al record dei 1500 (appartiene a Di Napoli, 3’32″78 a Rieti nel ’90, ndr) non ci penso, anche perché per provarci potrebbe voler dire accantonare, almeno per un anno o due, il lavoro per correre forte le distanze più lunghe. Non so se ne valga la pena”.
E adesso?
“I 3000 al Golden Gala il 17 e i 5000 a Doha il 25 settembre”.
Come sarà per lei il prossimo inverno?
“Ci metteremo lì con il coach per capire cosa fare, a cosa puntare sul breve, per poi affrontare il tema Tokyo. Abbiamo una mezza idea di andare in Kenya per una parte dell’inverno, ma non sappiamo se ci permetteranno di viaggiare”.
Come è Yeman dentro?
“Il ragazzino di sempre che tifa Inter e ama la F1”.
Quanto all’atletica? Le capita di guardarla in tv?
“Mi piacciono i grandi come Warholm, Duplantis e Jakob Ingebrigtsen, che sono un spot importante per uno sport come il nostro, affascinante ma difficile da capire. Bisogna amarla veramente l’atletica per capire com’è fatta, per sapere che è spietata, che è faticosa, che non ti regala niente. Non vi nascondo che c’è stato un momento che mi sono detto: quasi quasi mi metto a giocare a pallone, si fatica meno e ci si diverte di più”.
E poi?
“E poi ho cominciato a vedere la luce, a vincere, a capire che la fatica è il vero prezzo di questa felicità”.
Fonte www.repubblica.it