Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, medico, in questi mesi chiamato spesso in causa sul virus ma anche noto tifoso dell’Atalanta. Cosa ha pensato il 12 agosto dopo la partita di Champions con il Paris Saint Germain persa 2-1 dopo il novantesimo?
“Loro erano più forti ma noi volevamo vincere a tutti i costi e si vedeva. Per questo ci ho creduto fino alla fine. Anche perché sapevo che non avremmo retto i tempi supplementari e i rigori… Di quello meglio non parlare, in quel campo lì siamo peggio del Frosinone”.
Come si spiega il fenomeno Atalanta? Le piacciono le voci “miracolo” e “provincia”?
“Secondo me, la voce “miracolo” non fa giustizia all’Atalanta: è tutto lavoro intenso e mirato con una chiara strategia. La voce “provincia” mi piace, perché siamo una squadra provinciale ma con le capacità per competere con le squadre più grandi. E lo stiamo dimostrando”.
Cos’è l’Atalanta per lei?
“Tantissimo. Per me e per (quasi) tutti quelli di Bergamo. Per i bergamaschi il calcio è Atalanta, a Bergamo non si va allo stadio, si va “all’Atalanta” (avete mai sentito qualcuno che va “all’Inter “ o “al Napoli”?). Io di calcio non ho mai capito molto, ma me ne sono fatto una ragione: il calcio è difficile molto più della medicina, e di Gianni Brera in giro ce n’è pochini. La passione poi prescinde dalle conoscenze, le volte che perde l’ Atalanta stai male e basta”.
Va allo stadio?
“Un tempo ci andavo “all’Atalanta” e capitava di vincere anche con gli squadroni. Per esempio, una volta giocavamo con l’ Inter: siamo sotto di un gol, loro cantano “bergamaschi fateci le case”, ma dopo un po’ noi pareggiamo e poi vinciamo, 2 a 1, e i nostri “lo scemo non canta più”. Ora no, non ci vado più da molti anni. Le volte che si vinceva erano poche e allora se tornavi dall’Atalanta col freddo d’inverno, dopo aver perso, ti prendeva una malinconia da far invidia a Leopardi. Però senza Atalanta non si può stare; adesso ci sono la radio quando sono in macchina e il telefonino. Dopo 10 minuti capisci già come andrà a finire, mi regolo su possesso palla e calci d’angolo. E poi il lunedì c’è “Tutto Atalanta” a Bergamo Tv: imperdibile”.
Cosa voleva dire, una volta, essere tifoso dell’Atalanta?
“La vita del tifoso dell’Atalanta è dura (o perlomeno lo è stata). Si cominciava per non retrocedere, qualche volta, come ho detto, si vinceva anche con la Juve e ti sentivi in paradiso ma non succedeva quasi mai, più spesso capitava di pareggiare o di perdere in casa anche con chi stava lottando per la salvezza. Ad aprile di solito si facevano i conti dei poveri: se questa e quest’altra squadra pareggia e se quell’altra perde, ammesso che noi pareggiamo qui e vinciamo là e non perdiamo in casa l’ultima partita, allora siamo salvi. Si soffriva ma pazienza, l’Atalanta è Bergamo e qualche motivo di orgoglio c’era: più tempo in serie A dal dopoguerra di qualunque altra provinciale, una società con i conti in ordine che non ha mai fatto il passo più lungo della gamba, ha formato grandi campioni e ha saputo attirare dall’estero moltissimi talenti, sempre. E all’Atalanta c’è sempre stata gente per bene come era (un tempo) la gente di Bergamo: gente che parla poco e lavora tanto, capace di battersi per le cause degli altri: abbiamo contribuito a fare l’Italia più di chiunque altro”.
Non c’è stato mai un momento in cui ha dubitato?
“A dire il vero c’è stato un tempo in cui per l’Atalanta abbiamo provato vergogna: il campionato del 2011 (per lo scandalo del calcio scommesse che coinvolse Doni e che portò alla penalizzazione la stagione seguente, ndr). La cosa peggiore che possa capitare a un tifoso. Vergogna e delusione, e rabbia e rancore. Verso i giocatori – quelli che qui erano eroi premiati dal comune con la medaglia d’oro – e verso i dirigenti che non ci hanno spiegato nulla. Il campionato del 2011-2012 comincia così, pochi abbonamenti e pochi allo stadio. Il pareggio col Genoa la gente lo vive con distacco: fatti loro, non ci riguarda e poi il Genoa sembrava una squadra dell’oratorio. La domenica dopo si vince col Palermo. “Sarà un caso”, ho pensato senza emozioni e poi Lecce-Atalanta 1 a 2 . Lì torna la voglia di Atalanta, non può più essere un caso, cosa sta succedendo? Fino a quando all’edicola ti scappa l’occhio sul titolo di prima pagina della Gazzetta, è per l’Atalanta (quando mai?). “Bergamo Alta“, chissà chi l’ha fatto quel titolo, un genio. E allora… al cuore non si comanda, e vergogna e rabbia e rancore lasciano spazio alla passione, la solita, per l’Atalanta che è una fede. Anche se la fede hanno provato a farcela perdere quella volta : che non succeda più per carità!”.
Nelle ultime stagioni l’Atalanta sta facendo un altro campionato. Come mai?
“Da qualche anno è cambiato tutto. Perché? Chi lo sa. Forse non c’è una ragione sola, sono tante circostanze che si sono incontrate in una combinazione favorevole e a Bergamo c’erano tutti i presupposti perché potesse succedere. Ma ce ne siamo accorti solo noi, radio e televisione stanno sempre a parlare di Juve, Napoli, Inter e Milan (anche quando vanno male)”.
Si è mai commosso?
“Sì, quando Ilicic è riuscito a segnare 4 (quattro!) gol al Valencia nel girone di ritorno di Champions in Spagna”.
Qual è, per lei, il giocatore simbolo di oggi e perché?
“Ce ne sono tanti: Ilicic, Gomez, Zapata e de Roon su tutti in questo ordine”.
Negli anni Sessanta l’Atalanta vince una coppa Italia. Se la ricorda?
“Sì, benissimo: ero allo stadio quella volta con lo zio Camillo ingegnere e portiere che parava tutto in allenamento ma nelle partite vere si emozionava per via del pubblico”.
Nel derby del cuore tra stranieri, meglio Stromberg o Caniggia?
“È come chiedermi se era meglio Fellini o Antonioni. Con Stromberg l’Atalanta ha cambiato mentalità, ha cominciato a capire che ci si può avvicinare alle grandi e lui dopo che ha smesso di giocare ha continuato ad essere vicino a Bergamo. Caniggia sapeva volare, quando col pallone tra i piedi scartava cinque avversari e arrivava in porta da solo, metteva i brividi”.
Si ricorda Magrin, faccia tipica da calciatore anni ottanta, e la sua vicenda triste alla Juventus? Doveva sostituire Platini, ma restò due anni appena.
“Magrin era fortissimo, non so cosa sia successo ma lui è molto di più di un calciatore, un uomo colto, aveva e ha ancora competenze e senso pratico. È uno dei grandi commentatori delle imprese dell’Atalanta di oggi”.
Poi c’è stato Morfeo, un altro che forse solo a Bergamo poteva permettersi di essere Morfeo. Pochi giocatori dell’Atalanta quando vanno via riescono a mantenere le promesse, dopo essere cresciuti nel miglior vivaio d’Italia, tra i primi dieci in Europa.
“Proprio così. Morfeo è stato l’Atalanta per tanti anni, poi più niente. Più o meno come tutti (o quasi) quelli che sono andati via negli ultimi anni. Fortissimi da noi e in panchina nelle grandi squadre, questo sì che è un mistero”.
Le secca che oggi, nonostante la fama del centro di Zingonia, i giocatori dell’Atalanta siano quasi tutti stranieri?
“Di stranieri l’Atalanta ne ha avuti sempre, anche prima di molte altre squadre: vi ricordate di Humberto Maschio? E che dire di Sørensen? E poi Hansen, Rasmussen, Gustavsson, da Costa, Battaglia e Clerici”.
Ha mai curato o consigliato qualcuno dell’Atalanta?
“Per anni ho lavorato col medico dell’Atalanta. Erano gli anni settanta, lui medico di medicina interna, io studente, tutto qui”.
Come ha conciliato il calcio, la passione per il calcio, con il resto della vita? Una parte calda emotiva e l’altra inevitabilmente fredda razionale…
“Il cervello dell’uomo è fatto di tante aree che qualche volta comunicano, altre volte no”.
Chi le ricorda Gasperini? È il miglior tecnico possibile? Meglio di Lippi o Mondonico?
“Sì, è il migliore tecnico possibile, nessun dubbio. Per l’Atalanta almeno, alla Roma o alla Juve Gasperini non sarebbe più lui, in quei posti lì si rischia la sindrome di Morfeo. Lippi e Mondonico erano bravi, ma Gasperini è un’altra cosa”.
Che cosa direbbe a Ilicic per rassicurarlo e cosa crede gli sia capitato?
“Che come gioca lui si gioca solo in paradiso (deve averlo scritto Pietro Serina sull’Eco, usando una citazione celebre) e che si ricordi del 7 a 0 dell’anno scorso al Torino con 3 gol suoi e con uno, quello da centrocampo, che nessuno avrebbe saputo fare. Forse Pelé”.
Le piace quando i cronisti sportivi dicono “gli orobici”? O preferisce il termine “Dea”, abbreviazione per la mitologica Atalanta, unico caso di squadra che prende spunto dal pantheon greco…
“Non mi piace “orobici” e, a dire il vero, non mi piace nemmeno “Dea”. Anche se gli dei, quelli dell’Olimpo, la loro “dea” l’hanno aiutata col Psg in un modo persino imbarazzante: i francesi arrivavano in porta e poi chissà come sbagliavano sempre (si sono “mangiati” almeno sei gol). A un certo punto però Gasperini, che vuole sempre stupire – e ha quasi sempre ragione lui -, ha esagerato. Negli ultimi minuti toglie Zapata e mette un certo Jacopo Da Riva, un ragazzo della Primavera che aveva una mezza presenza in serie A. È troppo, gli dei si scocciano e l’Atalanta, lasciata sola, perde nel giro di tre minuti”.
La partita Atalanta-Valencia, uno dei momenti sportivi più belli, è però legata al Covid. Era febbraio e potrebbe essere stata la causa di molti contagi proprio durante la festa. Cosa ne pensa e come l’ha vissuta, vista la sua professione, e quello che poi è successo a Bergamo?
“Nessuno di noi aveva la percezione di quello che sarebbe successo di lì a pochi giorni. Ma questa partita è anche la dimostrazione di come molte delle cose del mondo sono governate dal caso. Chi, anche solo qualche mese prima, avrebbe detto che l’Atalanta sarebbe arrivata agli ottavi di coppa? E che avrebbe segnato 4 gol al Valencia? A quel punto entusiasmo alle stelle e 40mila persone che si abbracciano… E poi un numero esagerato di pullman pieni di gente che fa festa, canta e balla per la gioia. Se solo l’Atalanta avesse perso sarebbero stati tutti tristi e muti. Forse è stata questa la ragione della diffusione del contagio da noi più che altrove, o forse no, andrebbe studiato, non è difficile e ci aiuterebbe a capire tante cose”.
Fonte www.repubblica.it