TORINO – Per immaginare i fondatori della Juventus nella tardo pomeriggio del primo novembre di 123 anni fa, bisogna prima raffigurarsi la Torino della fine del 1800, dove si muoveva quel gruppo di ragazzi che stavano, con tanto entusiasmo quanta inconsapevolezza, dando il via a una leggenda dello sport mondiale. Non era più capitale, ma Torino rimaneva una perno fondamentale per l’economia dell’Italia appena unificata partendo proprio da lì. Industrializzata più di ogni altra città italiana, aperta e incuriosita ad ogni innovazione di carattere tecnologico (dalle prime automobili al cinema, che fa la sua comparsa nel 1896 con una proiezione proprio dei Fratelli Lumiere) e di cambiamento sociale (dalla moda allo sport che, in quel periodo, assumeva le forme con cui è arrivato a noi, a metà fra competizione e intrattenimento). L’economia aveva nel settore tessile il suo punto forte e l’industrializzazione era avvenuta principalmente con macchine inglesi. Un dettaglio decisivo per la vita sportiva della città che, in quel periodo, conta una nutrita colonia di venditori, tecnici e commercianti britannici. Giovani uomini che nel loro tempo libero si dedicavano a quello che dalle loro parti era già estremamente popolare da quasi mezzo secolo: il football. Anzi foot-ball, visto che nella grafia dell’epoca si usava il trattino.
IL VALENTINO – Il parco del Valentino è una delle loro mete preferite e sul prato (che d’inverno diventava il patinoire) avevano stabilito il loro campo, dove la domenica pomeriggio mettono in scena uno spettacolo strabiliante per i torinesi. Ventidue uomini, con pantaloni alla zuava e camice colorate «correvano come matti dietro a una sfera di cuoio cucita a mano, calciandola da una parte all’altra», si legge in una cronaca dell’epoca. Non ci vuole molto a incuriosire, soprattutto i più giovani che passano di lì e il giorno dopo nelle scuole si parla solo degli inglesi che giocano al football. Anche nel Liceo Classico Massimo D’Azeglio, una delle scuole che raccoglie la borghesia più raffinata della città. Tra una versione di greco e una lezione di filosofia, nei corridoi del D’Azeglio c’è sempre un gruppo di ragazzi, appassionato di ciclismo (ma rare erano le biciclette per provarci) e di corsa (lunghe “Gran fondo” venivano organizzate nell’attuale quartiere Crocetta), ma quando avevano visto i primi calciatori è stato amore a prima vista, come racconta Donna, uno dei fondatori che nel 1950 aveva scritto per Tuttosport una storia dei primi pionieristici anni della Juventus: «Erano signori abbastanza rotondi forniti maggioranza di baffi che prendevano a calci un pallone di dimensioni solite. Colpì soprattutto il fatto che questi signori interclasse del gioco con parole di sapore esotico come hands e offside: un gioco che aveva nomi così complicati e che veniva da chissà quali terra straniera scuola ebbe la meglio sulle marce e le volate ciclistiche».
IL PALLONE – Per prima cosa ci fu la ricerca dell’attrezzo. L’introvabile pallone: il primo venne acquistato a caro prezzo dagli inglesi e fece una brutta fine, il secondo fu fabbricato da calzolaio al quale vennero portati i resti del primo come modello. Intanto l’appuntamento diventa sempre la panchina di Corso Re Umberto a due passi dalla spianata della vecchia Piazza d’armi. Davanti all’officina dei Fratelli Canfari, dove si riparavano biciclette e motocicli (sognando un giorno di costruire automobili) e da dove, proprio i due fratelli in questione, Eugenio ed Enrico, si affacciavano per sbirciare i ragazzi con il pallone, unendosi presto a loro.
LE PRIME PARTITE – Le regole del football si dovevano intuire guardando gli inglesi e all’inizio era tutta una gran baraonda, ma c’era entusiasmo, la lucida follia dei quindici anni, il desiderio sfrenato di modernità. Fu così che il primo novembre del 1897 il gruppetto si trovò nell’officina dei Canfari, seduti in cerchio su cassette di legno a discutere la fondazione della società. Ne uscì lo statuto, il cui primo articolo diceva: «La societa? ha per iscopo lo sviluppo d’ogni ramo dello sport» e non anocra il nome, stabilito qualche giorno più tardi. Erano una quindicina, il primo novembre 1897, i nomi certi sono tredici (Eugenio ed Enrico Canfari, Gioacchino e Alfredo Armano, Luigi Gibezzi, Umberto Malvano, Carlo Vittorio Varetti, Umberto Savoja, Domenico Donna, Carlo Ferrero, Francesco Daprà, Luigi Forlano ed Enrico Piero Molinatti) e, tolti i due Canfari, di 20 e 19 anni, il più vecchio degli altri ne aveva 17. Scrive Donna: «I signori vi diranno che è stata una pazzia giovanile nemmeno loro avrebbero creduto che la società dovesse diventare tanto forte carica d’anni. Lo fecero solo per divertirsi, nient’altro. Il fatto è che a 15 anni le ore di latino sono sempre state pesanti». A volte basta non amare troppo lo studio per dare inizio alla storia.
Fonte tuttosport.com