(ANSA) – ROMA, 23 NOV – “Pensammo di non svolgere alcun
accertamento sul mancato fotosegnalamento. Non volevamo
nascondere qualcosa, era solo che non si era ritenuto di
approfondire la questione”. E’ quanto ha affermato il generale
Vittorio Tomasone, sentito come testimone nel processo a carico
di otto carabinieri accusati di presunti depistaggi sulle
indagini dopo la morte di Stefano Cucchi avvenuta a Roma
nell’ottobre del 2009. All’epoca dei fatti Tomasone era a capo
del comando provinciale dell’Arma. “Quando il 30 ottobre 2009 –
ha aggiunto il teste – convocai tutti i militari che avevano
avuto a che fare con Cucchi mi fu detto che non fu fotosegnalato
per un problema tecnico ma che si andò oltre perchè il ragazzo
era stato già fotosegnalato in passato”. Tornando con la memoria
a quei giorni, il generale ha ricordato che “all’epoca aveva un
rapporto frequente, quasi giornaliero con il pm Vincenzo Barba”,
titolare del fascicolo sulla morte del geometra. “Leggevo quanto
scrivevano i giornali e io alla procura chiedevo se in questa
storia c’entrassero o meno i carabinieri. ‘C’è qualcosa che noi
dobbiamo fare?’ domandavo al pm”. In merito all’interesse
sull’aspetto medico-legale del caso, il generale ha aggiunto “di
averne parlato con Alessandro Casarsa (imputato nel procedimento
e capo de gruppo Roma all’epoca dei fatti ndr) a seguito di
quello che la stampa scriveva sulla morte di Cucchi”.
“Questa storia ci ha distrutto fisicamente e economicamente,
abbiamo passato momenti terribili”. Lo ha detto Rita Calore,
madre di Stefano Cucchi, sentita come testimone. Il padre di
Stefano, Giovanni Cucchi, anche lui sentito come testimone ha
aggiunto che l’arresto “fu una doccia fredda. Porto sempre con
me una lettera di Stefano dell’agosto 2006 per dimostrare che
mio figlio teneva alla sua famiglia e noi a lui. Ilaria ha
dovuto scrivere un libro per smentire che noi lo avessimo
abbandonato”. (ANSA).
Fonte Ansa.it