ROMA – Le due grandi invenzioni che avrebbero conquistato il XX secolo, l’automobile e il cinema, sono in realtà nate in Europa a cavallo fra ‘800 e ‘900. La cosa buffa è che sono fondate su due principi di meccanica opposti: l’Auto sulla trasformazione del moto alterno dei pistoni in moto circolare uniforme (attraverso l’albero a gomiti), il cinema sulla trasformazione di un moto circolare uniforme nel moto alterno che (grazie alla croce di Malta) impone la fissità del fotogramma 24 volte al secondo creando nell’occhio umano l’illusione del movimento. Queste due invenzioni sono state precedute da innumerevoli tentativi, entrambe possono vantare una schiera illustre di predecessori, di geniali e folli inventori concentrati sul sogno di rendere il movimento indipendente dalla trazione animale e riuscire a riprodurlo là dove pittura e fotografia avevano potuto solo farlo intuire. È vero che l’automobile ha quasi un secolo di vantaggio, se vogliamo partire dal primo veicolo semovente progettato nel 1769 da Joseph Nicolas Cugnot vent’anni prima della Rivoluzione e alle porte. Anche il Cinema però ha una storia infinita di approssimazioni prima di sfociare nella prima proiezione pubblica organizzatadai fratelli Lumière il 28 dicembre 1895: basti pensare al mito della caverna di Platone (IV secolo a.C.), alle ombre cinesi (II secolo a.C.), al fisico olandese Christiaan Huygens, inventore nel 1659 della lanterna magica in competizione con Athanasius Kircheri che l’avrebbe inventata un anno prima, nel 1658, bruciando sul fil di lana l’italiano Matteo Campani che ne sarebbe venuto a capo nel 1678. Dopo di allora è stato un proliferare di scatole e meccanismi ottici antenati della fotografia e del cinema e la cui nomenclatura oggi fa sorridere: Taumatropio, Fenachistoscopio, Stereoscopio, Cineografo, Zootropio, Stereofantascopio, Prassinoscopio, Kaiserpanorama, Kinetoscopio fino alla miracolosa proiezione al Café de Paris di quella che i due ragazzi Lumière, Auguste e Louis, consideravano “un’invenzione senza futuro”.
Quello stesso secolo XIX fu fecondo anche per la formazione del DNA automobilistico: nel 1804 il francese Isaac de Rivaz mette a punto il primo motore a combustione interna, nel 1839 Robert Anderson collauda la prima auto elettrica, nel 186° il belga étienne Lenoir alimenta a gas il suo triciclo Hippomobile e nel 1864 l’italiano Innocenzo Manzetti fa circolare su strada la prima moderna carrozza a vapore. Nel 1883 vengono fondate le prime fabbriche di automobili: in Francia si associano Jules-Albert De Dion, Gerges Bouton e Charlers Trépardoux mentre in Germania Karl Benz fonda la Benz & Cie. L’anno dopo il nostro Enrico Bernardi presentò all’Esposizione Internazionale di Torino il suo prototipo di veicolo a tre ruote e nel 1894 veniva fondata la Miari & Giusti, prima fabbrica italiana di automobili.
La stessa lungimiranza dei fratelli Lumière la dimostreranno due ventenni amici per la pelle: William Silvester Harley e Arthur Davidson. Nel 1901, dopo aver montato su una bicicletta un motore da loro costruito, convennero che non l’avrebbe mai comprata nessuno. “Chi metterebbe le proprie balls sopra una raffica di esplosioni?”. Un sesto senso, anziché scoraggiarli, volle farli proseguire.
Le due invenzioni buone del Novecento (purtroppo smisuratamente prodottosi anche nell’elaborazione di invenzioni pessime, basti pensare alle armi) hanno cominciato insieme e si sono alleate nella missione congiunta di ampliare l’orizzonte delle esperienze, dei viaggi (anche mentali), del tempo regalato alla libertà individuale e collettiva. Fin da piccolo per me salire su un’auto o andare al cinema faceva parte di una stessa goduria. Intanto la posizione: affiancati a tanti compagni di viaggio, gli occhi rivolti verso l’immenso parabrezza costituito dallo schermo. E di conseguenza il buio, la strada, la meta. Andare al cinema è esattamente come fare un viaggio, corto o breve che sia, le cui emozioni perdurano, scavano, si trasformano in esperienza e memoria. Senza contare l’infinità di pellicole nei quali questa Santa Alleanza viene proclamata addirittura nei titoli e nella locandina: dalle comiche Keystone a Stanlio (sempre alle prese con macchine che vanno in mille pezzi) fino ai Maggiolini tutti matti, alle Lancia Aurelia de Il Sorpasso, all’Aston Martin DB 5 di James Bond, alla Dodge Challenger di Vanishing Point (Punto Zero) o alla Rolls Royce tutta gialla di Ingrid Bergman, alla Sunbeam Alpine di Grace Kelly in Caccia al ladro.Quest’ultimo film, realizzato da Alfred Hitchcock nel 1955 nel principato di Montecarlo propiziando la conquista del trono da parte della stupenda protagonista, mi ha fatto spesso pensare allo stile inconfondibile del regista inglese nel filmare le automobili.
Ci sono vari sistemi per rendere la cosa fattibile e, soprattutto, meno rischiosa per gli interpreti. Uno di questi consiste ne caricare l’auto di scena su una piattina, una sorta di pedana trainata molto bassa per non far risultare l’auto a un’altezza sproporzionata rispetto alle altre, e di filmare gli attori con la macchina da presa ben assicurata sul mezzo che la traina, il cosiddetto camera-car. È un sistema che non permette una grande mobilità delle inquadrature: tocca accontentarsi di immagini frontali o con un’angolazione assai limitate. È vero che si può movimentare la scena montandola con spezzoni girati da fermo: per esempio dell’auto che sfreccia, oppure riprese reali dell’auto in movimento (in tal caso spesso guidata da uno stunt). Il grande limite di queste riprese sta nella quasi totale impossibilità di interagire con gli attori e non poter stare in contatto con loro che via radio. Hitchcock, pur non rinunciando alle riprese reali, usava tutt’altro sistema: realizzava tutto in teatro utilizzando il trasparente, come si chiamava allora (oggi, che si ottiene lo stesso effetto in postproduzione, si chiama Green o Back Screen, sul quale vengono inserite le immagini degli sfondi).
Il trasparente è uno schermo cinematografico sul quale sono proiettate immagini girate in precedenza nelle strade dov’è ambientata la scena e con le più diverse prospettive. Viene posizionata l’auto con gli attori e si girano simultaneamente sia la scena che il trasparente (che doveva essere “interlacciato”, cioè sincronizzato con l’otturatore della macchina da presa). Questo sistema permette, oltre che di ottenere tutte le angolazioni che il regista può immaginare, anche di potersi fermare e correggere gli attori senza armare e disarmare tutto il complicato dispositivo delle riprese per strada. Personalmente lo prediligo anche perché permette di realizzare grazie ad alcune accortezze (smontare i parabrezza, le portiere etc.) addirittura dei piccoli movimenti della macchina da presa all’interno dell’abitacolo, cosa altrimenti impossibile. L’utilizzo dei droni ha ulteriormente arricchito di altre infinite possibilità le riprese dal vero ma, per quel che riguarda l’efficienza della recitazione, il teatro di posa resta per me imbattibile.
Nel film Romanzo di una strage (2012) mi sono spinto a sezionare un’automobile (una 1100/103, che gli dei mi perdonino!) per avere lo stesso tipo di inquadratura che tanto mi impressionava nei noir americani: l’attore ripreso frontalmente, volante, piantone dello sterzo e cambio bene in vista.
Nei film di Hitchcock questo procedimento è osservato scrupolosamente e si capisce il perché: tutto il cinema del mago del Brivido, come lo chiamavano sui rotocalchi degli anni ‘50 e ’60, è regolato dalla precisione chirurgica della mise-en-scéne, niente può sfuggirle, niente può essere lasciato al caso o all’arbitrio di qualcuno che non sia il Regista, l’Autorità suprema che nessuno può surrogare, figuriamoci l’autista del camera-car! Hitchcock ha bisogno di controllare ogni cellula del suo dispositivo, ogni impercettibile slittamento, ogni frazione dello spazio-tempo che articola nei suoi film e, soprattutto, di poter mesmerizzare, più che dirigere, i suoi attori. Sciamano evocatore di fantasmi, più che piccolo dittatore militare o fanciullo che gioca coi soldatini e si arrabbia se qualcuno li sposta o se si animano di vita propria.
L’uso del trasparente è per me la quintessenza del cinema di Hitchcock, la firma, l’autografo, più ancora che l’apparizione seminascosta in qualche scena quando meno te l’aspetti. Le strade di San Francisco dietro James Stewart al volante della sua DeSoto (La donna che visse due volte, 1958) o le campagne della Cornovaglia (in realtà girate a Palo Alto in California) alle spalle di Joan Fontaine e Laurence Olivier a bordo della Lagonda Rapide (Rebecca, la prima moglie, 1940). o la contea di Sonoma che scorre dietro Tippi Hedren mentre guida la sua Aston Martin DB 2.4 per raggiungere Rod Taylor nel census-designed place di Bodega Bay (Gli uccelli, 1963). La Lagonda, marca britannica ora scomparsa ma che negli anni ’40 era al suo apogeo, ritorna in altri due film hitchcockiani: Il Sospetto (1941) con Cary Grant che terrorizza la giovane moglie Joan Fontaine e Il caso Paradine (1947) con la nostra meravigliosa Alida Valli. Non possiamo chiudere questo breve excursus senza citare la Bentley 4¼ litre di Joel McCrea ne Il prigioniero di Amsterdam (1940) e la Ford Custom 300 Sedan del 1957 guidata dalla conturbante Janeth Leigh in Psycho (1960).
Naturalmente Hitchcock non è il solo ad aver utilizzato l’automobile come luogo per eccellenza dei suoi film, quasi una camera di compensazione dove si consumano progressioni drammaturgiche fondamentali nelle relazioni tra personaggi o, quando il personaggio è solo, il viaggio diventa una scusa per ricapitolare la convulsione degli avvenimenti e lo stato di avanzamento della propria salvezza o derelizione. Le turbolenze psicologiche del viaggio, sia nella realtà sia nelle trasposizioni cinematografiche, sono comuni a cineasti anche molto diversi fra loro e scivolano di film in film dalle origini fino ai giorni nostri, addirittura proiettandosi nel futuro prossimo venturo, dove la dilatazione del viaggio, nel Tempo e nello Spazio, costituisce l’essenza stessa del genere Science-fiction. Ma è un discorso lungo, magari da riprendere in altra occasione.
Fonte www.repubblica.it