ROMA – Nel 1961 la “guerra fredda” sta vivendo uno dei suoi momenti drammatici, con lo sbarco fallito nella Baia dei Porci degli esuli anticastristi organizzati dalla Cia e la costruzione del muro di Berlino, mentre la sfida tra Usa e Urss si estende anche allo spazio con l’impresa del primo astronauta Jurij Gagarin. Ciononostante, l’economia mondiale lancia forti segnali di ripresa, dopo la crisi petrolifera del 1956 causata dalla guerra per il canale di Suez con le sue conseguenze, e in Europa il mercato dell’auto cresce coinvolgendo sempre di più i ceti popolari in quella che, ad imitazione di quanto già avvenuto negli Stati Uniti, viene definita la “motorizzazione di massa”.
Protagoniste le cosiddette “utilitarie”: vetture semplici, economiche, facili da gestire, che i costruttori mettono in campo seguendo filosofie costruttive spesso molto diverse. I francesi, in particolare, hanno una visione originale in materia, che segue linee agli antipodi rispetto, ad esempio, alle piccole italiane Fiat 600 e 500 o alla stessa innovativa britannica Mini. Per i transalpini, la funzionalità e la polivalenza, doti che devono estendere le potenzialità di un mezzo a basso costo oltre i confini dell’uso cittadino o comunque condizionato dalle dimensioni ridotte, sono imperativi categorici che tengono conto, inoltre, dell’emergere di nuove tipologie di clientela, legate alle periferie urbane o addirittura alla campagna, che chiedono veicoli adatti ad una mobilità mista, validi per il lavoro e per la famiglia. In questo senso, la Citroen 2CV, sebbene derivi da un progetto anteguerra, interpreta bene le richieste del mercato interno, mentre la Renault, che dal 1946 ha sulla breccia la non più freschissima 4CV poi affiancata nel ‘56 dalla più “borghese” Dauphine, sente la necessità di voltare pagina con un modello base capace di mettere in discussione l’avversaria.
Obiettivo fondamentale per un’industria all’epoca sotto l’egida pubblica e nel quale crede fermamente il presidente Pierre Dreyfus. Al Salone di Parigi dell’ottobre 1961 viene così svelata al pubblico la Renault 4. La neonata non ha nulla a che vedere con tutte le precedenti vetture della casa e corrisponde ai voleri del patron, che lui stesso aveva sintetizzato con l’espressione “auto in jeans”. La debuttante ha nella praticità la sua arma evidente: la capacità di trovarsi a proprio agio nelle situazioni più disparate, pur essendo votata al massimo della semplicità e con poca spesa (350 mila franchi il prezzo ipotizzato). E giunge così a compimento anche lo sviluppo di un progetto che ha richiesto tempi lunghi di sperimentazione, con impegnativi collaudi. In uno dei tanti test, sulle strade della Sardegna, è addirittura Dreyfus in persona a rischiare la vita in un ribaltamento.
Lunga 3,61 metri, con telaio a piattaforma per proliferare diversi tipi di carrozzeria (ci saranno subito le versioni furgoncino), con lamiere e cristalli piani per risparmiare sui costi, la Renault 4 è ridotta all’osso negli allestimenti ma è in grado di ospitare comodamente quattro persone, offre un grande vano di carico trasformabile e, oltre alle quattro porte dispone di un ampio portellone posteriore, oggi elemento scontato ma allora inedito per una utilitaria. Prima trazione anteriore della marca, l’anticonformista berlinetta mette in campo inoltre molte soluzioni fuori del comune: dal comando del cambio a manico d’ombrello, allo scarico laterale, al disegno delle morbide sospensioni che causano una differenza nelle misure del passo tra lato destro e lato sinistro. Per facilitare la manutenzione, poi, il circuito di raffreddamento è sigillato e vengono eliminati i punti di ingrassaggio periodico. Nessuna novità, invece, per quanto riguarda il motore, l’affidabile 750 di derivazione 4CV con trasmissione a tre rapporti e 24 Cv.
Il successo del modello non sarà immediato e la leadership sul mercato nazionale arriverà nel 1967, ma intanto sarà forte il radicamento anche all’estero, con la commercializzazione in 100 Paesi e la produzione in 28. Perfino l’Alfa Romeo costruirà la 4 a Pomigliano dal ’62 al ’64 in 42 mila unità. Con il passare del tempo, l’impostazione della vettura non verrà mai tradita, con modifiche limitate: ritocchi estetici, cilindrate un po’ più alte (da 850 a 1000 fino a 1100 e 34 Cv), cambio a quattro marce, freni a disco. L’estrema polivalenza verrà sottolineata dai raid, dalle competizioni (Rally di Montecarlo e Parigi- Dakar compresi) e da una miriade di versioni speciali, alcune delle quali faranno sconfinare la proletaria Renault nell’area delle auto modaiole, come le Parisienne dalle tinteggiature scozzesi o “paglia di Vienna” e la sgargiante Safari. Altrettanto numerosi i nomignoli attribuiti alla indiscutibile simpatia della piccola Renault: “Quatro latas” (quattro lattine) in Spagna, “Katcra” (Caterina) in Jugoslavia, “El Correcaminos (Willy Coyote) in Argentina, “Tiparellu” (gocciolina) in Finlandia e “Oui Oui” in Zimbabwe. Del resto, i primi prototipi erano stati battezzati all’interno “Marie Chantal”, mentre l’ultima serie, non a caso, sarà la “Bye Bye”, per salutare una delle più longeve e terza vettura più prodotta di tutti i tempi: 8.135.424 esemplari dal 1961 al 1994.
Fonte www.repubblica.it