Sono sposati e decidono di ricorrere alla Procreazione medicalmente assistita (Pma) per poter avere un figlio. Un percorso complesso e che vede fallire un primo tentativo di impianto. Altri embrioni vengono però congelati, in attesa di un nuovo tentativo. Nel frattempo, però, lui decide di porre fine al matrimonio, ma lei non vuole rinunciare a quelle ‘vite in provetta’ ed al sogno di diventare madre. Così si rivolge ad un tribunale. Che le dà ragione: può impiantare gli embrioni, nonostante la separazione e la contrarietà dell’ex marito.
E’ la storia di Carola, che indichiamo con un nome di fantasia, e di una sentenza che fa da apripista e che farà sicuramente discutere. La pronuncia è del Tribunale di S.Maria Capua a Vetere che, per la prima volta in Italia, spiega all’ANSA l’avvocato Gianni Baldini – legale della donna – “decide su questo tema spinoso. Si tratta di una sentenza destinata a far molto discutere perchè riconosce il diritto assoluto della donna di utilizzare gli embrioni creati con il coniuge, e poi congelati, anche dopo la pronuncia della separazione e nonostante la contrarietà dell’ex marito”. La decisione del tribunale parte dall’assunto che il consenso dato alla Pma non è revocabile. Secondo la legge 40 sulla Pma, chiarisce infatti Baldini, “il consenso può essere revocato fino alla fecondazione dell’ovocita. L’uomo, anche dopo la fine del rapporto di coppia e la pronuncia della separazione da parte del tribunale, di fronte alla richiesta della partner di procedere al transfer delle blastocisti nel frattempo crioconservate, non ha alcuna possibilità di revocare il consenso precedentemente prestato e dunque non può giuridicamente impedire alla ‘ormai ex’ di procedere al tentativo di gravidanza. Dunque, in sostanza, l’uomo deve assumere la paternità giuridica, con tutti i relativi obblighi economici e morali, verso un figlio nato anche a distanza di molti anni dallo scioglimento del matrimonio”. Si tratta, rileva, “di una decisione importante per i molteplici profili giuridici ed etico sociali implicati e per il potenziale impatto sulle tante coppie che si separano e hanno embrioni crioconservati per trattamenti di Pma”. Il punto è che il consenso dato alla produzione di blastocisti crioconservate in vitro determina, nei fatti, l’assunzione dello status genitoriale senza alcuna possibilità di revoca. La circostanza che il rapporto familiare e coniugale sia venuto meno risulta, dunque, irrilevante e la donna potrà comunque procedere al tentativo di gravidanza. In caso di nascita del figlio, afferma Baldini, “l’ex marito sarà riconosciuto come il padre legittimo e conseguentemente tenuto ad ogni obbligo materiale e morale verso il figlio”. Casi analoghi sono pendenti anche in altri tribunali: “Questa sentenza farà sicuramente da aprispista”.
Ma quella di Carola non è stata una decisione semplice da prendere. “La mia – racconta – è stata una battaglia anche per tante altre donne: credo in coscienza di aver fatto qualcosa di utile per tutte quelle donne nella mia situazione, e per i tanti concepiti in provetta congelati, a cui la legge fino ad oggi non consentiva alternative”. Sicuramente, sottolinea, “non è stata una scelta a cuor leggero. Io ho più di 40 anni e per amore del mio ex marito, che aveva problemi di salute, ho deciso con lui di ricorrere alla Pma. Ci sono state delle complicanze e il primo tentativo non è andato bene. Poi lui ha voluto la fine del nostro matrimonio”. Intanto, però, degli embrioni erano stati crioconservati. “Ci ho pensato tanto, ma quegli embrioni creati in un contesto di amore – afferma – io non me la sono sentita di abbandonarli in una provetta, e ho deciso almeno di provare a metterli al mondo lo stesso, anche come donna single. Mi sono rivolta agli avvocati Baldini e Zema e grazie al loro aiuto anche il giudice ha capito che il mio progetto era serio”. Il punto, conclude, “è che credo non sia giusto venire meno alle proprie responsabilità genitoriali, e per quello che mi riguarda sono contenta che il giudice abbia riconosciuto a me ed a nostro figlio, per ora solo concepito, il diritto almeno di provarci”.
(ANSA).
Fonte Ansa.it