Compie 60 anni il regista americano, celebre per tanti film di successo e per il suo stile macabro-naïf. Che in fondo è un modo per dirci che la morte (e la vecchiaia) si allontanano guardando la vita con lo sguardo libero e creativo di un bambino
Era il 2007 quando Thimothy Walter Burton, più semplicemente Tim Burton, riceveva al Lido di Venezia il Leone d’Oro alla carriera, il più giovane regista nella storia della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica a ricevere questo premio. “E’ il riconoscimento più importante che abbia mai avuto e poi come oggetto è molto più bello, rispetto a un uomo nudo su una base circolare…”, disse allora scherzosamente alludendo al premio Oscar e forse, conoscendo l’ironia macabra tipica di tanti suoi film, alla tradizione che assegna l’Oscar onorario a registi non solo a fine carriera, ma anche alla fine del proprio percorso di vita.
Una battuta, in ogni caso, per certificare una distanza da Hollywood, che perdura ancora oggi, nella giornata in cui con ogni probabilità Tim Burton festeggerà i sessant’anni nella sua casa di Londra, città in cui vive dai primi Duemila, lui che sessant’anni fa nasceva a Burbank, contea di Los Angeles, a poche miglia a nord-est dagli Studios. D’altra parte, se lo scarso feeling con la casa madre è un po’ il marchio di fabbrica di un eterno ragazzo ribelle (che all’età di 12 anni rifiutò di restare con i suoi propri genitori per andare a vivere con la nonna e che a 16 aveva già una sua vita indipendente), per comprendere l’allergia di Tim Burton al mondo di Hollywood è sufficiente guardare i suoi film, da sempre il canale privilegiato di espressione della sua ricchissima gamma di sentimenti (tanto che, nel consegnargli il Leone d’Oro, l’allora direttore della Mostra di Venezia, Marco Müller, lo definì “un talento unico nell’impregnare di profondità emotiva le storie che racconta”). In particolare, c’è una scena tratta dal film Ed Wood (1994), ispirato alla vita e alle opere cinematografiche di Edward D. Wood Jr., il “peggior regista di tutti i tempi”: il personaggio in questione, interpretato da Johnny Depp, attore-feticcio di Burton, entra in un bar dove incontra Orson Welles (interpretato da Vincent D’Onofrio), uno dei più grandi cineasti di sempre; i due si confrontano e ne nasce un dialogo sul diritto alla libertà creativa in cui il “peggiore” e il “migliore” clamorosamente si trovano d’accordo.