La storia ci insegna e si ripete, come monito eterno. Il fenomeno migratorio appartiene a tutte le specie del Pianeta ed è sempre esistito. L’illusorietà di muri e barriere crolla di fronte al diritto alla vita.
A volte il silenzio vale più di molte parole e può essere così carico di significati da stordire come un boato assordante. Accerchiati da profughi e immigrati, in Europa gli animi si accendono insieme alle proteste, e le preoccupazioni si diffondono a macchia d’olio divampando come incendi in torbide notti estive.
Una situazione difficile, come tante già vissute nel corso della storia. Storia che si ripete, che avverte, che insegna, che punzecchia e provoca chi la vive e ancor più chi la subisce.
Viviamo nel bel mezzo del fenomeno globalizzante, della diffusione di un’unica cultura dominante su larga scala, una visione univoca che divide et impera, che assoggetta e schiaccia. Interessante notare come si stia giungendo gradualmente ad un livellamento mondiale delle società, tutte omologate e standardizzate entro quei canoni civili e progressisti che tanto piacciono e fan sentire moderni ed evoluti coloro che vi appartengono.
Necessario passaggio evidentemente, che può anche essere letto come un dirigersi verso una sorta di uguaglianza disperata e stridente, al cui interno siamo tutti ugualmente prodotti e consumatori.
Ma in fondo, perchè cadere nel pessimismo, o nel complottismo, o peggio in un vittimismo patetico e generalizzante che vede il mondo come un luogo brutto e cattivo in cui i degenerati sovrastano i più onesti e l’ombra prevale sulla luce?
La natura è spietata, e lo è sempre stata. Agisce senza giudizio e si perpetua nel suo eterno ritorno, e noi, microscopica espressione della vita, ci crogioliamo in vanità illusorie e istinti sintetici.
Come la plastica che tanto ci caratterizza e ci rappresenta, così anche le menti manifestano bizzarre costruzioni sintetiche. Barriere, paletti, frontiere, preconcetti, divisioni, timori, debolezze, fobie. In una parola: muri. Muri cerebrali.
Come una polaroid un po’ sbiadita ma istantaneamente apparsa sulla carta, appare l’immagine di chilometri e chilometri di ferro e fili e spine e torri di vedetta e soldati e armi. Di decine, centinaia, migliaia di vite sospese tra un filo spinato e un filo di fiato, soffio di vita che accende speranze e soffoca promesse di orizzonti mai sorti oltre il tramonto.
Ungheria, confine con la Serbia. Sono 175 i chilometri di estensione della barriera anti migranti innalzata dal fiero Orban, oggi a Milano per un incontro con il nostro Ministro degli Interni. La barriera è alta tre metri ed è sorvegliata da più di 10.000 soldati, i “migrants hunters” cacciatori di migranti, cacciatori di disperazione.Fin dall’inizio della crisi migratoria, Budapest ha scelto la linea dura e intransigente. C’è un solo modo per entrare legalmente nel Paese e proseguire il viaggio verso l’Europa: passare dalle due zone di transito autorizzate, una è a Horgos, dove stanno gli afghani, l’altra è Kelebia, dove aspettano i siriani. Trenta persone al giorno, nulla rispetto alla Grecia e all’Italia, eppure Orban ha deciso di implementare il muro ulteriormente, inviando a casa di 4 milioni di persone un opuscolo informativo in cui esorta gli ungheresi a mandare un messaggio all’Unione europa per difendere l’Ungheria dagli immigrati terroristi.
La Serbia viene da cinque lunghi anni di guerra e distruzione. Quelli che sono riusciti sono tutti fuggiti altrove quelli, con tutta la dignità possibile. Una nazione a brandelli i cui resti in putrefazione infastidiscono per l’acre odore che emanano. Dal lato ungherese del muro la vita prosegue indisturbata, tra vetrine e scuolabus. Dall’altro, il dark side, il lato oscuro di cui è meglio non parlare, perché scottante e un po’ fastidioso, migliaia di anime attendono da anni permessi di salvezza per l’ingresso nel mondo europeo. Un mondo ricco, che se ci entri ti salvi e fai carriera, così i tuoi figli possono andare a comprarsi il gelato al parchetto e ridere felici, mentre tu innalzi muri per difenderli dal nemico in agguato.
L’attesa per il riconoscimento dello stato di rifugiato dura anni e non è neppure certo che arrivi. Nel frattempo c’è chi tira a campare nei centri di accoglienza serbi, e chi fugge e si nasconde nei boschi per sentirsi un po’ più libero, un po’ più felice.
Niente cibo ai migranti, neppure del pane. Ivàny Gàbor, pastore metodista e leader della comunità evangelica ungherese, ha tentato di portare un po’ di sollievo a chi ne ha bisogno, senza però riuscirci. I responsabili dei centri di accoglienza impediscono per legge di portare cibo alle persone che sono detenute all’interno. Servono autorizzazioni, permessi e visti, un buco nero burocratico che è più che semplice “muro”. Così stabilisce il governo ungherese, per la sicurezza dei cittadini.
Questo vogliamo insegnare ai nostri figli? Davvero questi muri ci salveranno dalla miseria umana?
L’articolo 13 della Dichiarazione europea dei diritti dell’uomo recita quanto segue: “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.”
Per quanti muri possiamo innalzare, siano essi costituiti dai materiali più solidi e resistenti del mondo, non saranno altro che barriere intrinseche e limiti alla nostra facoltà di vedere la realtà per ciò che davvero è. Un mondo unico, i cui confini restano solo sbiaditi strascichi di timori mai superati. Arriverà il momento in cui dovremo affrontare i nostri demoni e allora ogni muro crollerà.