«Apprendiamo in queste ore dell’apprezzabile iniziativa, nella Regione Lombardia che, sull’esempio dell’Università di Torino, che offre un master di primo livello successivo alla laurea in infermieristica, ha avviato a sua volta un percorso formativo per infermieri di famiglia, a cui ci risulta abbiano già preso parte i colleghi dell’ASST di Cremona.
Lodevoli iniziative, non c’è dubbio, ma fin troppo sporadiche, e che rappresentano quindi un sassolino nell’oceano, rispetto alle necessità di una sanità territoriale fragile come non mai, che ha subìto anche il pesante contraccolpo di due anni di pandemia, e “vittima”, suo malgrado, anche di una carenza di personale ormai cronica .
Lo ripetiamo da mesi. La figura dell’infermiere di famiglia rappresenta una professionalità che riveste un ruolo chiave per la ricostruzione di un sistema sanitario che guarda sempre di più a figure specialistiche a stretto contatto con il cittadino, con il soggetto fragile, anche e soprattutto al di fuori delle realtà ospedaliere, per snellire prima di tutto i ricoveri, per fornire una solida assistenza domiciliare, per avviare i giovani, nelle scuole, verso una corretta educazione alla salute».
Così Antonio De Palma, Presidente Nazionale del Sindacato Nursing Up.
«Inutile nasconderci, il piano del Governo per inserire gli infermieri di famiglia in Italia, successivamente ad una legge, il famoso Decreto Sostegni, che doveva disegnare una svolta, si è miseramente arenato.
Anzi sarebbe meglio dire che un piano centrale per coordinare le attività delle Regioni in merito all’infermiere di famiglia non è mai davvero partito, nonostante i timidi tentativi compiuti dalla Conferenza delle Regioni.
I dati della Corte dei Conti del resto parlano da soli e sono allarmanti. Nel suo Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica, si evidenzia che “limitato è il grado di attuazione di misure, quali l’utilizzo degli infermieri di comunità” e “incerti anche i risultati sul fronte del potenziamento dell’assistenza domiciliare o del recupero dell’attività ordinaria sacrificata nei mesi dell’emergenza, che rappresenta forse il maggior onere che la pandemia ci obbliga ora ad affrontare.
Il Decreto Rilancio aveva previsto un inserimento di 9.600 infermieri di famiglia a maggio 2020, per il primo anno con contratti flessibili e dal 2021 assunti a tempo indeterminato: finora sono in servizio solo in 1.132, l’11,9% delle previsioni”.
Un disastro annunciato? Poco ci manca.
Le nostre indagini, successive al Decreto, mettevano in evidenza il concreto rischio di sprecare questo patrimonio di eccellenze professionali, in mancanza appunto di un piano sinergico e che coinvolgesse tutte le regioni.
Tutto come previsto, se non peggio. Visto che le nostre denunce sono state asseverate dai dati dell’Agenas, secondo cui adesso, ancora in piena pandemia, occorre 1 infermiere ogni 2-2500 abitanti. Quindi non bastano più i 9600 infermieri di famiglia, peraltro mai assunti, perché ora ne servono almeno 24mila.
Senza dimenticare che il fabbisogno di una popolazione, destinata sempre più all’invecchiamento, guarda con indispensabile necessità alla ricostruzione e al rafforzamento di una sanità territoriale che dovrà rispondere, gioco forza, alle esigenze della collettività.
Il ruolo sempre più centrale, la figura sempre più indispensabile degli infermieri italiani nell’ambito di un sistema sanitario che ha bisogno, come detto, di crescere, giorno dopo giorno, puntando apertamente sulle elevate professionalità di cui dispone, possono e devono rappresentare la chiave di volta per la tutela del cittadino, del malato e, in particolare, dei soggetti fragili.
In questo senso, non possiamo che accogliere con favore la Missione 6 del PNRR, che prevede lo stanziamento di ulteriori 4 miliardi di euro per rafforzare l’assistenza domiciliare a condizione che, anche questo, non si trasformi nell’ennesimo salto nel vuoto. Non ce lo possiamo proprio permettere, tutti».