Le malattie autoimmuni del fegato rappresentano patologie croniche a bassa prevalenza, ciò comporta un atteggiamento diverso sia dal punto di vista formativo che di collegamento tra medicina generale e medicina specialistica rispetto a quelle a maggiore prevalenza. Queste malattie sono in rapida evoluzione sul fronte delle conoscenze scientifiche, dell’inquadramento dei pazienti e delle terapie, anche grazie alla crescita di network tra specialisti (anche multidisciplinari) e database condivisi. I farmaci per le malattie rare hanno un tetto di spesa relativo e questo non può essere un ostacolo alla diffusione dei nuovi farmaci. In tutto questo, le associazioni di pazienti chiedono a gran voce una rete epatologica regionale per fornire agli ammalati il miglior percorso di diagnosi e cura. La rete siciliana può rappresentare un modello a cui le altre regioni possono ispirarsi.
Il webinar multiregionale “IL PERCORSO AD OSTACOLI DEL MALATO DI FEGATO. FOCUS ON MALATTIE EPATICHE AUTOIMMUNI” organizzato da Motore Sanità con la sponsorizzazione non condizionante di ALFASIGMA e INTERCEPT PHARMACEUTICALS ha fatto il punto della situazione toccando diverse realtà regionali ed evidenziando punti forti e necessità per assicurare al paziente il miglior percorso di diagnosi e cura.
Le malattie epatiche autoimmuni dell’adulto sono la colangite biliare primitiva (PBC), l’epatite autoimmune (AIH), la colangite sclerosante primitiva (PSC) e la malattia epatica IgG4 mediata. Sono malattie considerate relativamente rare, la cui prevalenza nella popolazione Europea è inferiore al 1%, anche se i dati epidemiologici disponibili non sono sicuramente accurati. Tutte queste malattie se non diagnosticate e non curate adeguatamente progrediscono in termini di severità clinica sino alle fasi di cirrosi scompensata del fegato e, caratteristica della PSC, al colangiocarcinoma. Il punto della situazione è stato fatto da Pierluigi Toniutto, Direttore Unità di Epatologia e Trapianti di Fegato ASUI Udine, che ha aggiunto:
“Nonostante esistano dei test di laboratorio e di diagnostica per immagini molto sensibili e specifici per la loro diagnosi, le malattie autoimmuni del fegato sono sicuramente sotto-diagnosticate se non nei casi, comuni solo nella AIH, di presentazione clinica come epatite acuta. Questo giustifica l’osservazione che nonostante oggi disponiamo di terapie efficaci per curare tutte le malattie autoimmuni del fegato, tranne la PSC, la percentuale di trapianti epatici eseguiti per queste malattie non sia diminuita negli ultimi 10 anni, attestandosi in Europa al 10%. Il coinvolgimento e la sensibilizzazione del medico di medicina generale per la diagnosi precoce delle malattie autoimmuni del fegato è di primaria importanza, poiché nella maggior parte dei casi queste malattie per lungo tempo rimangono asintomatiche e possono essere sospettate solo sulla base della alterazione dei test di funzione epatica. Ogni alterazione dei test di funzione epatica deve essere attentamente valutata e nel processo di diagnosi differenziale è indispensabile considerare anche la presenza di una malattia autoimmune del fegato”.
In Sicilia, sulla scorta dell’esperienza e al successo della rete costituita per l’HCV, si è attivata già alla fine del 2020, una rete, la Sintesi PBC, Sicilian Network for Therapy, Epidemiology and Screening in Hepatology. È stata presentata da Vincenza Calvaruso, Professore Associato Sezione Gastroenterologia Università degli studi di Palermo.
“La rete è uno strumento fondamentale per condividere le strategie, per ottimizzare le risorse, per accrescere la consapevolezza delle malattie, per avere dati sull’epidemiologia e consentire più equità nell’accesso a diagnosi/cure. Obiettivi principali della rete sono: avere dati più chiari sull’epidemiologia, identificare i fattori di risposta alla terapia di prima linea, valutare l’efficacia del trattamento di seconda linea, identificare predittori nuovi di eventi, di progressione verso la cirrosi ed eventuali eventi di scompenso, valutare comorbilità e rischio vascolare, standardizzare la gestione dei sintomi di questi pazienti. La rete include tutti i pazienti con malattie croniche di fegato divisi per eziologia e la parte dedicata alla PBC è una piattaforma web che registra tutti i pazienti diagnosticati nei 13 centri siciliani. Sono 430 i pazienti inseriti con caratteristiche di base simili a delle coorti già esistenti: 90% di donne, 55 anni età media della diagnosi, il 31,8% non risponde al trattamento UDCA. La probabilità di progredire verso la cirrosi va dal 3% in 5 anni, 11,7% in 10 anni e 27,2% in 15 anni”.
Secondo Ignazio Grattagliano, Presidente SIMG Bari “serve una rete di patologia strutturata. È vero che la Sicilia ha avviato una rete che per certi versi sta funzionando, ma deve essere implementata e devono collegarsi molti medici di medicina generale che sono lontani ancora dalla rete. È una realtà che va strutturata, perché attualmente è ancora basata su meccanismi di volontariato, altrimenti si rischia di perderla nel tempo. Poi potrà essere diffusa in altre regioni italiane ricollocandola in base alle realtà diverse”.
Altri temi affrontati da Grattagliano: l’aggiornamento professionale e l’innovazione tecnologica. “Esso non può essere di ampia gamma: il medico di famiglia deve essere aggiornato e ricevere informazioni sull’evoluzione della patologia. Essendo una patologia a bassa prevalenza il medico di famiglia, che non è un tuttologo, deve essere formato sui singoli casi che segue, soprattutto suddividendo tra coloro che hanno patologia lieve e patologia più aggressiva o pazienti destinati a, o che hanno avuto, un trapianto di fegato. Si può fare grande uso dell’innovazione tecnologica e ci auguriamo che il PNRR riesca ad inserire l’innovazione digitale in maniera diffusa. Per attivare una medicina di iniziativa che utilizzi la telemedicina, c’è bisogno di personale formato per gestire i pazienti attraverso dei sistemi informatici, non solo personale medico ma anche personale paramedico, soprattutto per quando saranno pronte le Associazioni funzionali territoriali e le Case di comunità, dove sarà sicuramente prevista la presenza di un medico di medicina generale formato in campo epatologico di supporto per inquadramento e diagnosi precoce dei pazienti”.
Secondo Pietro Invernizzi, Direttore ASST San Gerardo di Monza, Professore presso il Dipartimento di Gastroenterologia dell’Università Bicocca di Milano i medici di medicina generale hanno il grande compito di fare da screening, di identificare il sommerso. “Questo è il ruolo principale da attribuire ai medici di medicina generale – ha spiegato Invernizzi -. Riguardo alla diagnosi, parlando di colangite biliare primitiva non ci sono solo gli antimitocondrio, ma ci sono anche altri anticorpi e ci sono diverse tecniche di laboratorio per testarli. I costi variano e un’idea sviluppata in Lombardia per essere poi diffusa è quella di immaginarsi un PBC Reflex, per il quale sarà definito un costo medio per ogni richiesta che viene fatta per far diagnosi di PBC. Per i medici di medicina generale è impensabile che conoscano i dettagli di tutti gli anticorpi, ma se gli venisse il sospetto di PBC potrebbero richiedere gli anticorpi per PBC, il cui costo sarebbe contenuto nel caso di esito negativo e più alto se servono approfondimenti”.
I pazienti sono stati rappresentati da EpaC e da AMAF Onlus. Marco Bartoli, Responsabile accesso nuovi farmaci di EpaC ha spiegato che i pazienti e i caregiver sono molto informati ed interessati ad arricchire le loro conoscenze “per questo Epac ha messo in campo tutta una serie di attività per renderli sempre più partecipativi ed informati. I pazienti fanno domande sulla patologia, le complicanze, la gestione dei sintomi e soprattutto cercano continuamente la possibilità di partecipare a trials, di ottenere informazioni su percorsi di sperimentazioni su nuovi farmaci o di opzioni terapeutiche, per questo sarebbe ipotizzabile creare uno strumento che faciliti il reclutamento o per lo meno una maggiore visibilità di questi trial”.
Altro tema: la necessità di costituire una rete epatologica regionale e fare più informazione: “Molto spesso i PDTA – ha aggiunto Marco Bartoli – si limitano ad aree molto ristrette e a frammentare il mondo epatologico, per questo servirebbe realizzare una rete epatologica regionale in cui vengano individuati i passi del paziente e i centri di riferimento. Infine, possiamo creare tutti i percorsi più belli ma è la comunicazione il nodo cruciale: c’è difficoltà a reperire le informazioni e cercarle di metterle a disposizione dei pazienti e dei centri di eccellenza”.
Davide Salvioni, Presidente AMAF ONLUS, Associazione malattie autoimmuni del fegato, si è soffermato sulla diagnosi precoce e sulle attività dell’associazione. “Nei casi in cui gli indici di funzionalità epatica non siano corretti introdurre una valutazione dell’autoanticorpo potrebbe essere un’opzione che non escluderei, questo rientra in un concetto di una rete tra specialisti e medici di medicina generale in cui questi ultimi hanno un ruolo importante nell’individuare i campanelli d’allarme della malattia. Amaf ha formato due pazienti esperti per poter interloquire nei tavoli di discussione, abbiamo una linea di orientamento per poter suggerire ai nostri associati i migliori centri di cura a livello nazionale, offriamo un sostengo morale e presto apriremo uno sportello dedicato ai diritti dei pazienti. Infine, ci battiamo fin dalla nostra nascita per un riconoscimento per le malattie rare di due patologie, colangite biliare primitiva e l’epatite autoimmune, che pur considerate rare a livello europeo non lo sono a livello nazionale e con Uniamo stiamo collaborando per cercare ottenerne il riconoscimento”.
Ha chiuso il tavolo di lavoro Franco Ripa, Dirigente Responsabile Programmazione Sanitaria e Socio-sanitaria. Vicario Direzione Sanità e Welfare Regione Piemonte che ha spiegato: “Le malattie epatiche autoimmuni rappresentano un problema sanitario su cui la medicina sta facendo grandi progressi. Ad oggi, le misure di prevenzione sono di soprattutto di tipo generico e comportamentale. In tale contesto è fondamentale quindi la diagnosi precoce e lo sviluppo di una presa in carico adeguata per orientare i pazienti verso i setting organizzativi e i trattamenti più appropriati, secondo un modello integrato tra ospedale e territorio”.