Un contributo dello storico Luigi Zanin per riflettere sulla caducità delle umane cose che la cultura occidentale rifiuta, incorrendo sempre nella terribile vendetta degli dèi sfidati invano dagli artefici delle “grandi opere”
Forse Rocco Casalino non aveva tutti i torti a voler festeggiare Ferragosto, nonostante tutto. Pur se è lecito nutrire dubbi sulla pietas del pentastellato, la triste vicenda di Genova ci sollecita a qualche considerazione sui limiti dell’uomo e del suo peccato originale: la superbia, la “ybris” degli antichi Greci intesa come sfida agli dèi e alla condizione umana, tragicamente e perennemente destinata -prima o poi- alla sconfitta.
Dopo il crollo del ponte Morandi ci siamo accorti improvvisamente di vivere tra manufatti -fors’anche opere d’arte- labili, piloni di calcestruzzo dalla stabilità incerta e stralli corrosi dalla ruggine, in un’atmosfera corrotta che, evidentemente, non avvelena soltanto gli uomini.
Analogamente, le vittime di un incidente stradale sono la conseguenza del manto stradale viscido, del gelo, e più in generale di quelle che i piantoni, rispondendo ai cronisti del “giro di nera”, classificano alla voce ” cause in corso di accertamento “. Insomma, il cosiddetto fattore umano, quello attribuibile a un progetto azzardato noto come errore progettuale, pare relegato decisamene alla sfera delle perizie del post. E’ solo tra le macerie che aleggia lo spirito dell’imponderabile, dell’imprevedibile.
E’ per questo che mi piace segnalare il bel contributo con cui la storica del paesaggio Viviana Martini (Ponti antichi tra simbolismo e realtá, Nova Goriça 2015) rimette in fila alcuni significativi rituali antichi che danno l’idea del rispetto e del senso della misura dell’uomo di fronte a quel fenomeno imprevedibile che guasta la festa conseguente alla costruzione della “grande opera”.
In primo luogo perché – concetto oggi misconosciuto – l’opera è pur sempre un atto di violenza verso la natura e il suo naturale equilibrio. Ciò spiega il motivo per cui in occasione della costruzione di un nuovo ponte erano programmati sacrifici solenni (l’uccisione di un bue o di un cavallo) per compensare l’alterazione del territorio naturale. Si vedano le scene del sacrificio detto “suovetaurilia” nella dedicatio della colonna Traiana in occasione dell’inaugurazione di un nuovo ponte.
Il senso di provvisorietà del ponte, anche di quello più saldo, portava gli antichi ad apporvi le effigi di Apollo protettore delle strade, o di Nettuno, protettore delle acque. L’antichità romana ha trasmesso al Medioevo l’usanza di costruire un tempio votivo nei pressi dei ponti, che venivano dedicati a divinità, come quello che Erodoto racconta esser stato costruito sotto Dario, e dedicato a Hera. Eschilo racconta poi che nel 472 Serse volle che il primo carro a passare su un nuovo ponte costruito per fini bellici fosse simbolicamente condotto da Zeus, il che è ben indicativo del senso del limite delle forze umane che anche un despota, come l’imperatore dei persiani, aveva nei confronti dell’onnipotenza della natura. Oggi troviamo le immagini dei santi Cristoforo o di Giovanni Nepomuceno su ponti che consentono la comunicazione tra sponde per secoli opposte. Simboli del limite della effimera condizione umana, che l’acciaio e il cemento armato, oltre alla superbia (la “ybris” appunto, questa sì perpetuatasi nel tempo) di ingegneri e archistar, tentano di dissimulare abdicando alla sapiente sobrietà degli antichi.