La comunicazione tra medico e paziente, in particolar modo quella in oncoematologia pediatrica, è un viaggio all’insegna di empatia, speranza e coraggio. In questo campo assai delicato, i medici condividono non solo informazioni cruciali, ma si immergono nelle storie personali dei bambini e delle loro famiglie, diventando una fonte di forza e conforto.
È per questo motivo che ogni parola, ogni gesto deve essere pensato proprio per infondere fiducia e speranza nei piccoli pazienti, anche nei momenti più difficili. È un dialogo che supera le barriere della medicina, abbracciando le paure e i sogni dei bimbi, accompagnandoli con delicatezza e rispetto.
Questo legame profondo è il cuore pulsante della cura, capace di trasformare la lotta contro la malattia in un percorso condiviso di resilienza e amore.
‘La comunicazione tra medico e paziente, soprattutto quella in oncoematologia pediatrica- spiega all’agenzia Dire Carlo Alfredo Clerici, professore associato di Psicologia Clinica all’Università degli Studi di Milano Statale- è cruciale nell’ambito della cura, perché il percorso di trattamento di malattie a prognosi molto severa richiede un’alleanza molto forte, resa ancora più complessa dal fatto che in questo caso c’è un paziente ma anche una coppia di genitori e un intero nucleo familiare che soffre e che vive l’esperienza della patologia. Ecco, dunque, che la comunicazione è qualcosa che deve riguardare sia direttamente il paziente, sia il suo contesto’.
E nell’ottica di un miglioramento del percorso terapeutico, l’empatia riveste un ruolo fondamentale nella pratica clinica. ‘Quando parliamo di comunicazione e relazione- evidenzia Clerici- la comunicazione non è qualcosa che si apprende soltanto imparando le parole giuste. Il punto è riuscire a trovare una distanza corretta affinché il paziente percepisca che per il medico la sua è una vicenda non soltanto biologica ma anche esistenziale, importantissima’.
Il professore associato di Psicologia Clinica all’Università degli Studi di Milano Statale tiene poi a sottolineare di aver ‘sempre prestato meno attenzione al ruolo dei fattori psicologici sulla biologia della malattia, ma senz’altro una buona comunicazione e una buona relazione hanno un impatto molto grande sull’aderenza ai trattamenti, con il paziente che si fida e collabora, affronta anche le parti impegnative della cura. Il progetto di cura può inoltre aiutare ad avere, comunque, una qualità di vita anche nel caso di cattiva prognosi, di cattivo andamento. Se c’è qualcuno che accompagna il paziente, questo è per lui senz’altro un po’ più possibile’.
Il 10 ottobre 2022 è stato istituito un gruppo di lavoro sul miglioramento della formazione alla comunicazione in oncologia pediatrica. Il gruppo ha ricevuto l’approvazione del consiglio direttivo dell’Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica (Aieop) e della Federazione italiana associazioni genitori e guariti oncoematologia pediatrica (Fiagop).
‘Questo gruppo- informa l’esperto- nasce da una Tavola rotonda proposta nel corso di un convegno congiunto tra Fiagop e Aieop e io vi ho preso parte in qualità di moderatore. L’idea, però, non era quella di organizzare un incontro in cui si raccontano storie ed esperienze senza poi proporre un contributo propulsivo, ma quella di costituire un gruppo di lavoro per osservare e studiare la realtà della formazione ai temi di comunicazione e relazione nelle scuole di specializzazione di pediatria in Italia e all’estero, proprio per cercare di capire quale fosse la situazione per poi avanzare proposte e ottenere progressi tangibili. Questo gruppo ha lavorato per un anno, fotografando la situazione internazionale e osservando che vi sono molte cose che si potrebbero fare. Io sono stato coordinatore di questo gruppo, che ha unito diversi professionisti e rappresentanti delle associazioni dei genitori. È stata un’esperienza davvero interessante proprio perché congiunta, non solo dunque appannaggio dei tecnici, degli operatori ma un’esperienza che ha cercato di rispecchiare le esigenze che hanno le famiglie attorno a questo tema’.
‘E tra le varie cose- le parole di Carlo Alfredo Clerici- è emersa l’opportunità che i corsi siano sistematici nelle scuole di specializzazione. Il punto fondamentale è proprio qui: dare valore a un tema che oggi la medicina è pronta a recepire, ovvero che il tema della comunicazione è da apprendere, proprio perché non si tratta di una comunicazione qualunque. Così come, ad esempio, si apprende la comunicazione nel campo del marketing o in quello pubblicitario, il settore della medicina ha delle sue regole e suoi aspetti etici e di relazione che sono molto delicati, che non si possono apprendere allo stesso modo della comunicazione di marketing o pubblicitaria ma si apprendono attraverso il trasformare l’esperienza osservativa che si fa, raccontandola attraverso il confronto, la riflessione e l’apprendimento di skills pratiche’.
‘La comunicazione non è un aspetto accessorio della cura– precisa- ma è un aspetto centrale e i professionisti che imparano a dare valore a questo aspetto sono anche professionisti più protetti rispetto all’esaurimento professionale, al burnout, perché se si dà valore a questa parte della cura, della relazione non si perde mai, mentre se si imposta la cura come se fosse una sorta di partita in cui si vince o si perde, questo può essere anche molto frustrante, occupandosi di patologie severe. Se, invece, l’interesse, il centro è la persona e il suo accompagnamento, ovviamente orientato dal sapere scientifico, stiamo parlando certamente di un punto di forza fondamentale’.
Sono passati quasi due anni: a oggi, siamo nel 2024, il professor Clerici illustra i dati ottenuti e si sofferma sui prossimi passi per migliorare la comunicazione tra medico e paziente e quella tra medico e paziente pediatrico oncoematologico. ‘La funzione era quella di compilare un report sulla situazione delle tecniche di aggiornamento e di formazione in ambito internazionale e fotografare la situazione italiana ed è stato rivolto un invito alla conferenza dei docenti di pediatria delle specializzazioni in Italia perché vengano adottate delle misure per migliorare la comunicazione medico- paziente. Un invito che speriamo venga recepito. L’obiettivo è stato dunque quello di fotografare l’esistente e, allo stesso tempo, di mettere una lente d’ingrandimento su un tema che ci sembrava essere rimasto un po’ in ombra. La nostra proposta è stata recepita sia da Fiagop che da Aieop, che hanno poi demandato a chi potrebbe utilizzare il nostro lavoro da un punto di vista operativo’.
Ma esiste una parola che un paziente, bambino o adulto, chiamato ad affrontare un cancro, vorrebbe sentirsi dire dal proprio medico? ‘Credo vi siano aspetti che riguardano soprattutto la fiducia e la speranza, che sono fondamentali. Fiducia nel fatto di non essere abbandonati, di non rimanere da soli di fronte alla malattia, fiducia che si possa sempre fare qualcosa per poter stare meglio. Questo si traduce poi in una speranza: quindi, una buona relazione ha una influenza molto importante, purché sia ovviamente accompagnata da una buona tecnica. La prospettiva moderna, infatti, non vede in contrasto una buona relazione con una buona tecnica, anzi. Speriamo di avere sempre risorse migliori che funzionano sulla biologia, ma ci auguriamo che i medici abbiano sempre tempo da dedica alla relazione con il proprio paziente. A tal proposito la stessa Intelligenza artificiale potrebbe liberare il medico da tutta una serie di inutili incombenze per farlo stare maggiormente in relazione con il paziente’.
La pediatria e l’oncoematologia pediatrica pongono il medico di fronte a una triade: il bambino o l’adolescente e i suoi genitori, ove entrambi presenti, ovviamente. La relazione terapeutica, quindi, ha la necessità di essere impostata su tre canali perché rivolta verso tre individui distinti, ma anche verso quattro se leggiamo la famiglia come ‘corpo’ o come ‘altra individualità’. Questo dettaglio non da poco rende la comunicazione molto più complessa e articolata e, di conseguenza, la formazione è ancora più necessaria forse che in altri ambiti, perché implica una capacità di gestione molto sofisticata.
‘Negli ultimi anni- dichiara Clerici- c’è stata la nascita di un’attenzione dedicata agli adolescenti che, in passato, erano spesso inquadrati già nel mondo dell’adulto, anche con conseguenze molto importanti rispetto alle loro cure, mentre pensare che l’adolescente come soggetto in crescita, quindi incapace di autodeterminarsi, vada ascoltato in modo specifico è senza dubbio una competenza ulteriore che il pediatra oncologo ha dovuto avere. Senza dimenticare un’attenzione dell’oncologia dell’adulto che vede soggetti giovani, quindi mi riferisco non solo alla stretta età pediatrica ma anche a quella di passaggio tra adolescenza ed età giovane-adulta, in cui i bisogni non si definiscono soltanto da un passaggio anagrafico, da 18 a 19 anni, ma si stabiliscono in un arco di anni in cui c’è una autonomia personale, professionale, lavorativa e affettiva rispetto ai genitori. Per un clinico, dunque, riuscire a conoscere queste dinamiche è molto importante’.
‘Il punto cruciale- conclude- è che la cura è anche un accompagnamento, perché esiste anche un piano umanistico e non solo tecnico. Il rischio è che la cura venga intesa, per pressione di natura economica, sempre più come l’erogazione di prestazioni. Invece la cura non è solo questo, è anche un percorso di solidarietà. La nostra società, d’altronde, si definisce su come è capace di prendersi cura delle persone in situazioni di fragilità, mentre un modello centrato soltanto su criteri di natura economica e produttiva poi, su questo fronte, mostra la corda. Ad esempio, proprio la comunicazione diventa meno importante, la relazione diventa meno importante, si curano peggio le patologie con cattiva prognosi, non ci sono risorse per le cure palliative quando le cose vanno male. Invece un sistema di cura che sia capace di questo, fondato sul modello umanistico, è molto importante’.
Carlo Alfredo Clerici spiega poi che ‘nel nostro Paese, è bene ricordarlo, la cura è un diritto previsto dalla Costituzione, mentre altrove, pensiamo agli Stati Uniti, è una merce. E voglio sottolineare che in Italia tutte le strutture che si occupano di oncoematologia pediatrica sono pubbliche, con un forte sostegno solidaristico da parte delle associazioni’.
La comunicazione in oncoematologia pediatrica è, dunque, molto più che un semplice scambio di informazioni tra medico e paziente. È un abbraccio di parole e gesti che crea un rifugio sicuro, dove ogni bambino e ogni famiglia può trovare comprensione, forza e speranza. In questo dialogo intimo e umano, medici e pazienti diventano compagni di viaggio, uniti nella lotta contro la malattia e nella celebrazione di ogni piccola vittoria.
È questa connessione profonda che rende ogni passo del cammino un po’ più leggero e ogni battaglia un po’ più sopportabile, illuminando il percorso con la luce della speranza e dell’umanità.