Michele Spatari / NurPhoto
Giovanni Tria
Tria in trincea. Dopo i giorni delle polemiche, ora si entra nel vivo. Iniziano di fatto oggi le audizioni sul Def, il Documento di economia e finanza, da parte delle Commissioni bilancio di Senato e Camera. Al centro dell’attenzione ci sono le prospettive di un Paese che non cresce ed è fermo allo 0,2%, dato per altro ulteriormente tagliato a un misero +0,1% del Fmi, il Fondo Monetario Internazionale.
Dinanzi a questo quadro, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, domenica con Lucia Annunziata nel programma Mezz’ora in più su Raitre, ha messo i puntini sulle “i”: nessuna patrimoniale e sì alla flat tax, purché “progressiva”, sintesi che riportano tutti i quotidiani oggi nei loro titoli, tranne La Stampa: “No alla patrimoniale e alla flat tax” per aggiungere anche un: “Aumenterei l’Iva ma i partiti sono contrari”. “Con questo Def abbiamo voluto dare il messaggio di stabilità, nel senso che il quadro macro che abbiamo presentato è completamente condiviso” si legge poi su la Repubblica. E sulle tasse il ministro ha anche aggiunto: “Come sempre abbiamo detto, non ci saranno manovre correttive nel 2019”. Fin qui la cronaca spicciola.
Ma sullo scenario dei conti pubblici e del fisco, Federico Fubini sul Corriere della Sera gela qualsiasi entusiasmo con questo incipit: “Un buco di una trentina di miliardi con la ‘flat tax’. E questo prima ancora di trovare i 50 che servono per coprire reddito di cittadinanza e pensioni anticipate a ‘quota 100’ nei prossimi due anni. Difficile, per ora, che lo spread dell’Italia su Spagna e Portogallo scenda tanto presto”. Proseguendo: “Il governo sta promettendo nuovi tagli delle tasse ed è probabile che la stagione attuale, relativamente tranquilla, lo stia incoraggiando in questa direzione. In effetti le ragioni per tirare il respiro non mancherebbero, al termine di molti mesi di tensione. Dopo i crolli del 2018, da inizio anno Piazza Affari è teatro di uno dei recuperi più spettacolari al mondo. La produzione industriale ha smesso di scendere e negli ultimi due mesi ha dato sorprese positive, lasciando sperare che la recessione sia alle spalle. Anche lo scarto fra i rendimenti dei titoli di Stato italiani e tedeschi — sempre alto—è di ventato un po’ più stabile da quando in dicembre il governo ha accettato di trovare un accordo con la Commissione europea sul bilancio”.
Tuttavia, prosegue l’analista economico e finanziario di via Solferino, a uno sguardo meno superficiale “sotto la superficie, continuano ad agitarsi nei mercati correnti profonde di diffidenza verso l’Italia”. Cartina di tornasole sono i buoni del Tesoro che stanno continuando “a perdere terreno rispetto a quelli di Paesi simili”. Così “lo strato di fiducia resta sottile, mentre il governo legge nella quiete di questi mesi un incoraggiamento ad andare avanti con il taglio delle tasse. Sarebbe una ragione di più per dare al mercato qualche indicazione chiara sull’entità della sforbiciata e su come finanziarla” sottolinea Fubini.
Invece? “Nel Documento di economia e finanza (Def), pubblicato la scorsa settimana, non c’è. Si moltiplicano invece le dichiarazioni di esponenti della Lega sull’ipotesi di un intervento sull’Irpef, l’imposta sui redditi delle persone fisiche, in nome di una ‘flat tax’: una aliquota ‘piatta’ che riduca la pressione fiscale sulle famiglie”. Il punto è che “nessuno sa quanto possa costare la ‘flat tax’ data la struttura sociale del Paese, per la semplice ragione che non sono mai stati fatti calcoli su dati reali. Per il momento, nessuno ha mai chiesto agli uffici competenti di tentare una stima”.
Stima che però azzarda lo stesso Fubini, sulla base dei dati disponibili del Def e del Dipartimento delle Finanze: “L’anno scorso l’Irpef ha garantito allo Stato 194,3 miliardi su un totale di 480,5 miliardi di entrate tributarie. Quella tassa è il cuore delle entrate dello Stato, la locomotiva che permette alla scuola o alla sanità pubbliche di andare avanti. E quei 20,6 milioni di italiani fra i 15 mila e i 50 mila euro di reddito, il ceto medio italiano, sono i contribuenti essenziali all’intero sistema: da loro arrivano circa 110 miliardi l’anno di gettito Irpef, un euro ogni quattro delle entrate tributarie dello Stato. Una ‘flat tax’ al 15% rappresenta un taglio effettivo dell’imposta di circa il 40% se si ipotizza che per quei venti milioni di italiani l’aliquota media effettiva sia di circa il 25%. In altri termini, a prima vista, con la tassa piatta il gettito medio crollerebbe di circa 44 miliardi e il deficit pubblico esploderebbe fuori controllo”. Servono quindi meccanismi che ne mitighino l’impatto, suggerisce il giornalista. la Lega, per esempio, fa capire che le famiglie dovranno scegliere: se vogliono la ‘flat tax’, devono rinunciare a tutte le attuali deduzioni e detrazioni che esistono per loro”.
Ma quanto valgono le detrazioni? Ancora qualche calcolo: se si sommano gli assegni familiari, si legge, (1,8 miliardi), il bonus di Renzi (8,9 miliardi) e altri sgravi del genere, si arriva a circa 11 miliardi di economie. “Il buco della ‘flat tax’ sarebbe dunque ancora colossale, oltre trenta miliardi. Tutto questo, prima ancora di trovare i 50 che servono per coprire reddito di cittadinanza e pensioni anticipate a ‘quota 100’ nei prossimi due anni”. Difficile pertanto che in queste condizioni lo spread possa scendere… su Spagna e Portogallo.
Intanto, come ci racconta un’altra cronaca dello stesso quotidiano, il testo del Def a undici giorni dall’approvazione (“salvo intese”) “rimbalza ancora tra Palazzo Chigi e i ministeri” a causa delle coperture ancora mancanti e assalti alla diligenza dell’ultima ora, con la probabilità che il decreto sulla crescita possa slittare “a maggio”. E per dare un saggio del clima, “Raccontano al Mef che Luigi Carbone, il nuovo capo di Gabinetto di Giovanni Tria, sia in forte pressing per conto del ministro sugli altri dicasteri coinvolti, entrambi guidati da Luigi Di Maio. Se i tecnici del Tesoro sospettano che al Mise siano «in alt o mare con le coperture», nelle stanze del capo politico del M5S se la prendono con Tria e con i tecnici del Mef, autori di circa 35 norme. Un a competizione che di certo non aiuta ad accelerar e i tempi”, si legge, “mentre le imprese aspettano di sapere quale impatto avrà la nuova ‘mini-Ires’. Se le ultime limature al testo saranno confermate, l’aliquota (oggi al 24%) scenderà al 22,5 per il 2019, al 21,5% per il 2020, al 21% per il 2021 e al 20,5% per il 2022”. Al momento è tutta un’incognita.
Conclusione, da La Stampa: “Resta solo la strada del deficit, a questo punto ben oltre il 2,4 per cento programmato nel Documento di economia e finanza. Assumendo un tasso di crescita pari a quello programmato, se il governo deciderà di fermare gli aumenti Iva significherà un aumento del disavanzo per più di un punto percentuale, dunque ben oltre il tre per cento fissato come limite invalicabile da Maastricht. Salvini e Di Maio sperano nell’indulgenza della nuova Commissione europea”.
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