Quando il 2 giugno 2018, proprio nel giorno della Festa della Repubblica, Soumayla Sacko è stato ucciso durante una sparatoria nella zona di Vibo Valentia, in Calabria, si è riaccesa l’attenzione sulla condizione dei migranti — anche quelli regolari — costretti a vivere in condizioni disumane in tendopoli e campi, ai margini della società e sottostare a trattamenti lavorativi più vicini all’idea di schiavitù (come altro definireste lavori logoranti e massacranti che ti tengono impegnato 12 ore per meno di 25 euro, senza tutele, senza certezza di rapporto, senza sapere che ne sarà di te il giorno dopo?) per mandare avanti la filiera dell’agricoltura che permette ai clienti come noi di avere prodotti tutto l’anno a prezzi bassissimi. Se questa nuova attenzione ha prodotto una consapevolezza diversa, anche a sinistra, sui temi del lavoro e dell’accoglienza è stato per merito di un sindacalista di base — proprio come Soumayla — che da quel giorno ha portato avanti una battaglia per la dignità di tutti senza mai piegarsi a compromessi o farsi blandire dalle sirene della fama e dell’esposizione mediatica facile: Aboubakar Soumahoro.
La storia di Aboubakar è la storia di tante ragazze e tanti ragazzi che sognano un futuro migliore, lasciano la loro terra pieni di speranza e scoprono una società in cui vige la legge del più forte, in cui l’esclusione e la marginalizzazione del povero diventano meccanismi di controllo sociale a buon mercato, in cui si applica un razzismo di stato attraverso dispositivi in materia di immigrazione dove le persone vengono considerate intrinsecamente pericolose per l’ordine pubblico. È la storia degli invisibili che vivono ai margini e dai quali non vogliamo essere disturbati quando usciamo la sera. Degli hombres sin historias di cui non vogliamo occuparci, che non portano voti, e di cui accettiamo lo sfruttamento e il sacrificio anche umano per non mettere in discussione il nostro modello di società. È una storia che potete leggere nel libro Umanità in rivolta. La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità (Feltrinelli).
Il libro è un vero e proprio manifesto. È un testo pieno di politica, perché di prassi, azione, pratica e anche studio è fatta la quotidianità di un attivista che ha deciso di impegnarsi per la dignità, la solidarietà e la coesione sociale. Da un’autobiografia che racconta una purtroppo tristemente normale vicenda di razzismo quotidiano (i lavori malpagati senza tutele e il rischio per la salute; la derisione delle persone e lo sguardo pieno di odio e paura di chi vede nel diverso una minaccia senza nemmeno riuscire a dirsi perché) per diventare lotta in cui i diritti di chi non ha diritti diventano la leva per costruire un modello di società diverso. Dalle marce dei Sans-Papiers, alle lotte per il giusto salario. Dalla denuncia dei dispositivi legislativi che dalla legge Martelli degli anni ’90 fino alla Minniti-Orlandi arrivando all’ultimo Decreto “Sicurezza” di Salvini pongono le persone immigrate in una condizione di crescente difficoltà, criminalizzante per il loro stesso essere povere, di colore, senza sapere dove andare. Il titolo del libro richiama Albert Camus e lo porta in una dimensione collettiva. Per il filosofo e scrittore francese infatti l’uomo in rivolta era quello che nel rifiuto di un sistema indice un nuovo paradigma di lotta; l’umanità che si rivolta di Aboubakar è quella che vuole costruire un nuovo modello partendo dalla sostenibilità, la solidarietà, e la ricerca della felicità anche attraverso un lavoro che sia giusto e ben pagato. Una società in cui si contrasta l’esclusione e si provvede — nel libro la distinzione è ben marcata, ma procede di pari passo — alla soddisfazione dei bisogni materiali e di quelli immateriali delle persone.
«L’attuale paradigma è una minaccia per la nostra umanità. Il nostro compito collettivo è quello di elaborare un modello alternativo basato sulla giustizia sociale e ambientale. La crisi in corso e le disuguaglianze prodotte dal capitalismo potrebbero giocare un ruolo importante per costruire una vera alternativa», scrive, continuando indicando la soluzione alla disumanizzazione nella «costruzione di una coscienza collettiva, profondamente radicata nei valori umani, orientata alla trasformazione della società e capace di tramandasi di generazione in generazione». In questo, Aboubakar si mette nella scia di un dibattito contemporaneo che in tutto il mondo sta ponendo la dimensione di un nuovo comunitarismo come soluzione all’evoluzione del capitalismo che ha portato l’individualismo sfrenato (la famosa “società che non esiste” Margaret Thatcher) in una piena dinamica di auto-sfruttamento e auto-distruzione. Se la sinistra avesse voglia di ripartire da questa messa in discussione, rimettendo al centro della sua riflessione la felicità e il futuro, superando la contrapposizione tra vincenti e perdenti, senza avere più timore del povero ma accogliendo la paura di chi non sa come arrivare alla fine del mese, vede il costo della vita aumentare e il valore del suo stipendio scendere, allora forse questa umanità in rivolta potrebbe riprendere a marciare e dare un senso alla lotta di chi si sta giocando tutto perché non ha davvero niente da perdere. Avendo per tutto da costruire.
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