L’irrimediabile propensione all’illecito del sistema Regioni è puntualmente confermata dalle ultime tegole precipitate sul centrodestra lombardo (quattro ordinanze di custodia per esponenti di Forza Italia nell’ambito di una maxi-inchiesta) e sul Pd calabrese (col governatore Mario Oliverio indagato per corruzione). E per fortuna che questi magnifici enti hanno competenze ancora limitate alla sanità, alla formazione e ad alcuni capitoli del governo del territorio, perché se si fossero presi pure il resto non osiamo immaginare le conseguenze.
L’indagine lombarda ha i suoi epicentri a Milano e a Varese. Racconta uno schema consuetudinario in queste faccende. Un gruppo di imprenditori interessati a pilotare appalti o più semplicemente a saltare lungaggini burocratiche. Alcuni politici in campagna elettorale che in cambio di finanziamenti o altre utilità presentano, raccomandano, spianano la strada. Funzionari che si adeguano in cambio di promozioni o soldi. L’accusa più grave è per il titolare di un’azienda del settore rifiuti, Daniele D’Alfonso, che secondo l’accusa aveva un filo diretto con il Palazzo ma anche con la ‘ndrangheta. La più surreale riguarda il costruttore Emilio Paggiaro che si sdebita abbuonando al politico Gioacchino Caianiello i 125mila euro che l’uomo gli deve a titolo di risarcimento dopo una precedente condanna per concussione.
Il copione calabrese è altrettanto consueto: illeciti nella gestione di una serie di opere pubbliche. L’operazione è stata battezzata “Lande Desolate”, risale a un paio di anni fa ma adesso si è conclusa con la formale contestazione delle accuse. Anche qui c’è un dettaglio da Repubblica delle Banane, e cioè le dimissioni dal notaio di un gruppo di consiglieri comunali che determinarono nel 2016 l’estromissione del sindaco forzista di Cosenza Mario Occhiuto: non fu un atto politico, sostiene ora l’accusa, ma un complotto che prevedeva precise contropartite, anche economiche.
A 25 anni da Tangentopoli e a sei dallo scandalo delle spese pazze che travolse sedici consigli regionali su venti (si salvarono solo Veneto, Abruzzo, Toscana e Trentino) con centinaia di indagati e milioni di euro buttati dalla finestra, sarebbe forse il caso di riflettere sulla vocazione criminogena dell’istituzione, perché delle due l’una: o per motivi misteriosi chi è eletto nelle Regioni e chi lavora con le Regioni è più delinquente della media, oppure il sistema-Regioni è costruito in modo da tirare fuori il peggio dalla politica e dall’impresa.
La seconda ipotesi sembra la più credibile. Dovrebbe rifletterci chi spinge per un aumento delle competenze regionali fino a conferire ad essa poteri anche in materia di beni culturali, scuola, o addirittura relazioni internazionali. La Lombardia e il Veneto, come è noto, puntano a prendersi in esclusiva la gestione di tutti i 23 capitoli di spesa che attualmente condividono con lo Stato centrale mentre l’Emilia Romagna “si accontentebbe” di 15 voci. Le cifre in ballo sono enormi. Solo il pacchetto istruzione e ambiente vale 21,5 miliardi e se le richieste venissero accettate in toto si potrebbe arrivare alla stratosferica cifra di 71,5 miliardi l’anno.
Al di là di ogni considerazione di merito su una modifica così profonda delle competenze pubbliche e dell’architettura dello Stato, la vicenda lombarda e quella calabrese ripropongono dubbi più che motivati sull’opportunità di ulteriori aperture di credito al regionalismo italiano, un sistema che andrebbe radicalmente ripensato a cominciare dalle sue modalità elettive e dalla ridicola coesistenza di venti leggi elettorali differenti, tarate sugli interessi delle classi dirigenti che le hanno approvate e che ogni tanto le modificano a seconda delle circostanze.
Ieri Luigi Di Maio ha lanciato un appello all’unità dei partiti per “alzare un muro contro la corruzione”, chiedendo uno sforzo comune sul fronte della questione morale. Se non fosse solo demagogia pre-elettorale, si potrebbe cominciare subito da qui, dalle regole dell’autogestione regionale e dalla loro dimostrata permeabilità agli scandali, condizionando a una riforma seria la concessione di ulteriori poteri e delle mirabolanti somme rivendicate in nome dell’autonomia.