Anche in una politica in cui vale tutto e il contrario di tutto nel giro di pochi giorni, la metamorfosi di Di Maio e del Movimento Cinque Stelle è qualcosa di clamoroso. Siamo passati, in pochi giorni, dal partito delle «Ong che sono taxi del mare», della mancata autorizzazione a procedere per Salvini «perché le scelte sono state collegiali», della difesa acritica al decreto sicurezza, di quest’Europa «che tra sei mesi è finita», degli incontri coi leader dei gilet gialli che non dovevano mollare mentre mettevano a ferro e fuoco Parigi e minacciavano colpi di Stato, dal partito coi valori «di Almirante e Berlinguer», a una forza politica che vuole aprire i porti, teme la deriva di ultradestra, elogia Angela Merkel come una «che ci vorrebbe anche in Italia», si erge in difesa dei parametri di Maastricht, teme «le tensioni sociali» e si candida a essere il partito dei moderati. Ripetiamo: tutto nel giro di qualche giorno.
Possiamo rubricarla a tattica elettorale in vista delle elezioni europee, ma saremmo ingenui a farlo. In ballo non c’è solo qualche punto percentuale, o il tentativo di coprirsi a sinistra per evitare il sorpasso del Partito Democratico alle elezioni europee. Quella cui stiamo assistendo è una svolta a 180 gradi del primo gruppo parlamentare italiano. E pensare che questa svolta non abbia conseguenze politiche – o meglio, non sia finalizzata a produrre conseguenze politiche – è quantomeno da ingenui. Anche perché, in parallelo alla svolta, va registrata anche l’epurazione, silenziosissima, di Alessandro Di Battista e Rocco Casalino, passati nel giro di poche settimane pure loro dal centro della scena al nulla.
La questione, a questo punto, è capire cosa bolle in pentola. Di sicuro, c’è il tentativo di legittimarsi all’interno della grande coalizione che con ogni probabilità governerà l’Europa anche per i prossimi cinque anni, quella che va dai Popolari ai Socialisti passando per i liberali e i verdi. Del resto, il Movimento Cinque Stelle non ha mai fatto mistero di voler stare dalla parte di chi governa, anche in Europa. Tanto meglio se da “ago della bilancia”, in grado di scongiurare la minaccia di una maggioranza tra Partito Popolare e forze sovraniste.
La metamorfosi del Movimento Cinque Stelle, tuttavia, non può non avere effetti anche sul futuro dell’alleanza gialloverde. Fino a qualche settimana fa ci si interrogava su una possibile saldatura politica tra le due forze di governo, di un’alleanza che avrebbe potuto travalicare i confini romani per calare sui territori, di un patto generazionale tra Salvini e Di Maio che avrebbe potuto consolidarsi, per dominare i prossimi decenni della politica italiana. Oggi questa ipotesi non è più nemmeno sul campo. Se si votasse domani, banalmente, le possibilità di una nuova alleanza gialloverde sarebbero ridotte al lumicino. Ma mentre il destino della Lega è chiaro, dentro un alleanza di centrodestra con Forza Italia e Fratelli d’Italia, quello dei Cinque Stelle è ancora in divenire. C’è chi dice che la metamorfosi sia preludio a un’alleanza col Pd, chi pensa che sia un tentativo di prenderne il posto, costruendo un nuovo bipolarismo Lega-Movimento, chi è convinto che dietro la svolta ci sia la consapevolezza che prima o poi toccherà sostenere un governo di larghe intese, così come vuole Mattarella.
La questione è capire se il Movimento sopravviverà a questa svolta, se l’apriscatole potrà diventare tonno senza smarrire se stesso, se nel tentativo di emanciparsi dalla Lega non finirà ad assomigliare così tanto al Pd da farsi erodere un pezzo di elettorato pure dai democratici. In una fase di grandi polarizzazioni valoriali come quella attuale, stare in mezzo può dare un grande potere, ma può anche voler dire prendere pugni da destra e da sinistra. Soprattutto se si tergiversa troppo. La speranza, per il Movimento Cinque Stelle, è che Di Maio sappia quel che sta facendo.
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