Donald Trump è pronto a presentare un piano infrastrutturale dal valore complessivo di 2 mila miliardi di dollari.
Un piano ambiziosissimo, con cui il presidente statunitense mira a mantenere una delle sue principali promesse elettorali. La necessità di una riforma infrastrutturale era infatti stato uno dei suoi cavalli di battaglia nel 2016: ciononostante, una volta arrivato alla Casa Bianca, il magnate si era trovato costretto ad accantonare la proposta, vista l’opposizione di gran parte del Partito repubblicano che considerava la sua riforma troppo keynesiana, pericolosamente simile al New deal di rooseveltiana memoria e – in definitiva – eccessivamente gravosa in termini di spesa pubblica.
IL PIANO CHE PIACEREBBE A SANDERS
Ora Trump ci riprova. Il presidente ha incassato l’appoggio della leadership democratica a questo suo nuovo piano. La speaker della Camera, Nancy Pelosi, e il leader della minoranza al Senato, Chuck Schumer, si sono incontrati con Trump, mostrando apprezzamento per la proposta. Adesso inizieranno i negoziati che – nel corso delle prossime settimane – potrebbero portare a un’intesa formale tra l’Asinello e la Casa Bianca. Del resto, non è un mistero che per i democratici la questione infrastrutturale rappresenti un elemento di notevole importanza. Basti ricordare che in materia, nel 2016, Trump e il senatore socialista Bernie Sanders dicevano sostanzialmente le stesse cose. Insomma, la riforma delle infrastrutture sembrerebbe inaugurare una fase di disgelo tra Trump e i democratici. Che arriva in un periodo convulso in seno all’agone politico statunitense.
TENTATIVI DI DISGELO CON I DEM
Gli strascichi dell’inchiesta Russiagate avevano riacuito le tensioni tra la Casa Bianca e il Partito democratico, mentre – alla Camera dei Rappresentanti – i dem stanno ancora oggi considerando la possibilità di mettere il presidente americano in stato d’accusa per ostruzione alla giustizia. Ora bisognerà vedere se questo parziale rasserenamento nei rapporti produrrà conseguenze sostanziali o risulterà invece effimero. Fatto sta che quanto accaduto conferma la trasversalità politica da parte del presidente che lo porta ad adottare un’autentica strategia dei due forni, in grado di consentirgli di oscillare tra fazioni contrapposte in base alle necessità del momento. Con tutti i rischi che questa linea comporta. Se infatti i democratici – come abbiamo visto – risultano ben disposti verso il nuovo piano infrastrutturale del presidente, i repubblicani stanno mostrando tutto il proprio fastidio.
Diversi esponenti dell’Elefantino vedono in questo progetto il rischio di una invasività statalista in senso rooseveltiano. Tuttavia, al di là delle questioni ideologiche, i maggiori timori riguardano le coperture necessarie per sostenere un simile investimento. I repubblicani si dicono categoricamente contrari sia a un incremento del già elefantiaco deficit federale sia a un aumento delle tasse. E proprio la questione delle imposte potrebbe innescare una serie di dissidi all’interno del Partito repubblicano. Per finanziare il suo progetto infrastrutturale, il presidente vorrebbe infatti aumentare la tassa sulla benzina, portandola a 25 centesimi a gallone: un’idea sostenuta anche dalla Camera di Commercio e dallo stesso Partito democratico ma che ha trovato i repubblicani – neanche a dirlo – piuttosto scettici.
GLI EFFETTI SULLA CAMPAGNA ELETTORALE PER IL 2020
Il timore è che alzare questa tassa – l’ultimo a farlo fu Bill Clinton nel 1993 – possa produrre conseguenze nefaste in vista delle elezioni del 2020. Addirittura alcuni settori vicini al Partito repubblicano si sono spinti a parlare di un vero e proprio complotto, ordito da Pelosi, per convincere Trump ad aumentare la tassa sulla benzina e danneggiarlo così in campagna elettorale. In particolare, molti repubblicani temono il precedente di George H. W. Bush che, nel 1992, non ottenne la rielezione principalmente a causa di un aumento delle imposte. In questo senso, parte dell’Elefantino sta cercando vie alternative per finanziare il piano infrastrutturale: alcuni deputati hanno per esempio proposto di far cassa attraverso la dismissione di distressed asset del governo.
Ciò detto, al di là delle dinamiche politiche, con questo piano la Casa Bianca punta evidentemente a sostenere la crescita economica statunitense. E – sotto tale aspetto – il settore infrastrutturale riveste un’importanza significativa. Come ha rilevato uno studio effettuato dal Council of Foreign Relations nel 2018, i ritardi causati dalla sola congestione del traffico costerebbero all’economia americana oltre 120 miliardi di dollari all’anno. E i problemi non si fermano qui: anche gli aeroporti rappresentano un elemento critico. Si stima infatti che ritardi e voli sospesi dovuti allo stato non certo ottimale di numerosi aeroporti nazionali costerebbero, ogni anno, oltre 35 miliardi di dollari. Anche la condizione in cui versano le strade poi lascia assai spesso a desiderare: a fronte di Stati la cui rete stradale risulta in ottime condizioni (come Utah e Wyoming), altrove si registrano situazioni disastrose (come in California e Pennsylvania). Ma non è tutto.
I SONDAGGI PARLANO CHIARO (E TRUMP LI ASCOLTA)
Svariati esperti ritengono che investire in nuove infrastrutture (oltre che in manutenzione corrente) determinerebbe la diminuzione dei costi di trasporto e l’incremento della competitività a lungo termine dello Zio Sam. Senza poi dimenticare un probabile aumento dell’occupazione (l’11% della forza lavoro totale americana risulti attualmente impiegata nel settore infrastrutturale). Insomma, è abbastanza chiaro che – con questa mossa – Trump voglia mantenere alto il livello di crescita economica, così da poterne trarre vantaggio in campagna elettorale. E, se anche questo provvedimento rischia di scatenare una faida interna al Partito repubblicano, non bisogna trascurare un dato importante. In base a una rilevazione condotta da Rasmussen lo scorso febbraio, il 62% degli elettori americani considera molto importante un miglioramento delle infrastrutture per la crescita economica del Paese e l’87% si è detto favorevole a una collaborazione tra la Casa Bianca e il Partito democratico sulla questione. Trump ha fiutato l’aria del consenso. E ha deciso di seguirla.