L’exploit di Matteo Salvini alle recenti elezioni può essere letto in molti modi, e sicuramente ci saranno ancora molti mesi di analisi sul “fenomeno” che sta orientando la politica italiana di questi ultimi anni. C’è però una domanda che sta girando tra cui si sta occupando delle faccende di cronaca politica: «quanto durerà?». Per molti la parabola di Salvini rischia di essere simile a quella di Matteo Renzi. Accumanti da una tendenza al rischio totale, alla giocata a effetto comunicativa, all’all-in come strategia per far pesare i propri rapporti di forza. La lettura vede in questo atteggiamento la tendenza a volare troppo alto e, come Icaro, tra narcisismi e velleità, precipitare miseramente. In effetti nel periodo tra le Elezioni Europee del 2014 (quelle del 40,8%) e il referendum costituzionale del 2016 (ve lo ricordate?) la narrazione renziana era inscalfibile. Sembravamo dentro una nuova era, “The Renzian Age”, destinata a orientare la politica italiana per anni e anni. Quando le ali di Icaro si sono sciolte si è perso tutto. Qualcuno arrischia un parallelo, quasi cercando di determinare una profezia che si autoavvera. Un wishful thinking. Ma leggendo i dati che stanno arrivando — e altri ancora ne arriveranno, quindi avremo modo di tornarci — e inserendoli dentro una prospettiva di più ampio respiro, si rischia di uscirne delusi.
La Lega è il più vecchio partito italiano attualmente in circolazione. Negli anni ha potuto radicarsi nei famosi “territori” di cui la sinistra parla sempre (nonostante il suo progressivo arretramento), ha potuto costruire una rete di amministratori e riferimento locali in grado di essere antenne e ripetitori di una narrazione che — al netto delle differenze di leadership tra Bossi, Maroni e Salvini — non ha mai cambiato la sua radice: protezione della comunità e degli interessi locali; ricalcolo fiscale in chiave autonomista; espulsione dell’altro in quanto disturbatore di quiete, ordine pubblico, sicurezza, occupazione e crescita economica. Per quanto sembri inconcepibile, è la Lega oggi l’unico vero “partito del territorio”. E cercare di spiegare le ragioni del successo di Matteo Salvini con la pervasività della sua comunicazione non significa sbagliare, ma vedere solo la punta dell’iceberg. Dare contro alla Bestia, a Luca Morisi e alle fake-news è una chiave di lettura limitata e limitnte perché profondamente urbana e metropolitana. Curiosamente, i luoghi in cui Matteo Salvini non sfonda.
Il successo della Lega è fatto di anni e anni di “buona amministrazione” e un discorso fortissimo sui valori di riferimento. Cambiano le classi dirigenti, cambiano i periodi politici, ma la Lega — che passa da locale a nazionale — non perde mai il focus ideologico. Cambia riferimenti, si riempie dei vestiti migliori per adattarsi (dalla canottiera di Bossi alla felpa di Salvini), agisce nel vuoto ideologico con spregiudicatezza, passa da libertaria a moralista, ma non perde mai il radicamento territoriale, l’appartenenza alla comunità, e l’idea che proteggere il piccolo mondo equivalga a escludere il nemico. E il nemico, lo sappiamo, può cambiare sulla base della minaccia che si percepisce in quel momento.
Ogni libro che analizza la storia della Lega e le figure di Matteo Salvini e Umberto Bossi concorda nel vedere nell’eredità del “metodo PCI” la vera scuola che ha insegnato loro a fare politica. Bossi è stato iscritto al partito (per due anni, dal ’74 al ’75) e Salvini ha iniziato nella ‘corrente’ dei Comunisti Padani. Quest’ultimo, inoltre, ha studiato da giornalista mentre faceva carriera come funzionario di partito. Imparando a costruire opinione e radicamento. Girando in tutte le comunità capendo che il popolo fuori dalle città non votava sulla base di opinioni e ideologie, ma sulla base degli interessi minimi e delle proprie necessità e rivendicazioni. Può non piacere, ma è un discorso di “cura” e di costruzione di risposte a partire dalle richieste di quel territorio che negli anni il Partito Democratico ha smesso di presidiare in nome di una vocazione maggioritaria e dell’esaurimento della carica valoriale dentro la dimensione burocratica della gestione del potere. Il metodo è sempre quello. Non si sono inventati niente. Anzi, lo hanno imparato dagli altri.
Possiamo consolarci con i dati che vedono Salvini non sfondare, appunto, nelle grandi città (oltre a Bari, Lecce e Modena, dove hanno vinto sindaci di sinistra, la Lega non si afferma a Torino, Milano, Reggio Emilia, Bologna, Roma e Napoli. Esatto, la linea dell’alta velocità), ma secondo gli ultimi censimenti nelle aree urbane vive 1 italiano su 3. E stando alle mappe diffuse da YouTrend, l’onda verde si diffonde proprio tra quei puntini rossi che noi abitanti cosmopoliti, metropolitani, laureati e progressisti usiamo per costruirci una spiegazione consolatoria che però ci impedisce di capire la profondità (e la diffusione) della questione.
La politica è una cosa seria. Ed è fatta di proposte minime e minimali dentro un racconto ampio, una cornice, una visione in cui inserirle. La comunicazione è fondamentale, ma c’è molto altro. Mentre la sinistra stava pensando a operazioni di make-up delle sue nuove liste elettorali e dei suoi nuovi partiti post-ideologici, e mentre si stava beando con il mito della “buona amministrazione” e dei sindaci come sistema di governo da mutuare su scala nazionale, e mentre stava delegando agli spin-doctor e alle agenzie di comunicazione la costruzione dell’agenda politica, qualcuno stava girando tutti i bar di provincia a raccontare che in quel mondo c’era bisogno di una nuova visione, e una nuova classe dirigente. E intanto il discorso attecchiva. Il presidio cresceva. Il frame si radicava. Salvini potrà anche bruciarsi, ma dopo di lui qualcun’altro — presto o tardi — prenderà il suo testimone e potrà ricominciare da capo, perché il discorso in cui inserirsi resterà un discorso che le persone riconosceranno. E voteranno.
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