La data cerchiata in rosso sui calendari di Matteo Salvini e Luigi Di Maio è venerdì 19 luglio. Entro quella data si deciderà il destino del Governo. Perché da lì in avanti si chiuderà l’ultima finestra elettorale per andare al voto anticipato il 29 settembre, ultimo giorno utile per consentire a un nuovo eventuale Governo di assumersi la responsabilità della manovra. Se niente accadrà, almeno fino alla primavera i gialloverdi continueranno la loro esperienza a Palazzo Chigi.
Dopo le elezioni europee di domenica scorsa, che hanno sancito il ribaltamento dei rapporti di forza all’interno dell’Esecutivo gialloverde, la volontà di proseguire è stata evidenziata da entrambe le parti. Salvini ha immediatamente ceduto su Edoardo Rixi, il viceministro leghista alle Infrastrutture condannato per peculato e falso a tre anni e cinque mesi. Le sue dimissioni sono la vera cartina al tornasole per capire le mosse del vicepremier del Carroccio: aveva l’occasione di sconfessare il contratto di governo, che prevede l’addio di ministri e sottosegretari in caso di condanna, e ha scelto di non farlo. Pur facendo la voce grossa sulle priorità dell’agenda di Governo e provocando continuamente l’alleato con una raffica di proposte finora indigeste al M5S, dalla sospensione del Codice appalti alla flat tax, dalla Tav alla pace fiscale.
Ma in questo momento le carte le dà Salvini. E il Movimento ha scelto di lasciare fare. Troppo alta la posta in gioco: il rinsaldarsi dell’asse pentastellato governista intorno a Di Maio per la sua riconferma a capo politico M5S, sancita ieri con il plebiscito su Rousseau, racconta quanto la paura di tornare al voto tra tre mesi sia più forte del timore di implodere o snaturarsi del tutto. Sulla vecchia guardia incombe la tegola del divieto dei due mandati (anche se nessuno scommetterebbe sulla sua tenuta in caso di urne anticipate), sui peones quella di non vedersi ricandidati o rieletti. A nessuno conviene rischiare in un momento di debolezza così acuta.
Da qui l’ordine di scuderia in casa Cinque Stelle: abbassare i toni (lo si è visto già ieri, davanti alla raffica di dichiarazioni tranchant di Salvini) ed evitare il pericolo di incidenti. In sintesi: sminare il terreno. Per questo il M5S non si opporrà in Consiglio dei ministri al decreto sicurezza bis della Lega. Lascerà che il premier Giuseppe Conte proceda nel confronto con Francia e Ue sulla Tav. Aprirà sull’autonomia differenziata, sapendo che lo stesso Salvini accetterà qualche correzione, non avendo interesse a mettere a rischio la sua avanzata al Sud e la trasformazione del Carroccio in partito nazionale. Quanto alla flat tax, le dichiarazioni di oggi targate “fonti M5S” la dicono lunga sul riposizionamento: «La proposta della Lega di finanziare in deficit la flat tax ci trova favorevoli. A maggior ragione se, come apprendiamo, Tria già condivide questa idea: ben venga il regime fiscale al 15% per i redditi fino ai 65.000 euro». Un modo per allinearsi al Carroccio e spostare la palla nel campo del ministro dell’Economia.
Il rimpasto già nell’aria farà il resto. Il ministro degli Affari europei, reclamato ieri da Salvini, andrà alla Lega. Tra i candidati c’è Guglielmo Picchi, attuale sottosegretario agli Esteri, sempre che non gli venga preferito l’attuale ministro della Famiglia e braccio destro del vicepremier, Lorenzo Fontana. I Cinque Stelle sono pronti a cedere anche la Sanità, sacrificando la ministra Giulia Grillo. Proveranno a resistere all’assalto al dicastero delle Infrastrutture, ma rinunciando a Danilo Toninelli. E già hanno fatto filtrare che invece sono “intoccabili” Elisabetta Trenta alla Difesa e Sergio Costa all’Ambiente, finiti nel mirino di Salvini.
Il rimescolamento delle poltrone a Palazzo Chigi, d’altronde, è utile allo stesso Di Maio per ricalibrare i pesi all’interno del Movimento, squassato dalla batosta elettorale. E si intreccia con la partita della riorganizzazione interna, che punta a coinvolgere di più tutte le cinque anime del M5S, tra cui la più insofferente: quella che fa capo al presidente della Camera, Roberto Fico. Che ieri ha fatto sapere di non aver partecipato al voto su Rousseau e di non gradire «la politica dell’uomo solo». Ma il restyling, per quanto veloce nelle intenzioni, produrrà effetti che potranno essere valutati soltanto nel tempo. Di certo nessuno pensa che in tre mesi il M5S riesca a riconquistare i 6 milioni di voti persi dal 4 marzo 2018 al 26 maggio 2019.
Si tenterà di navigare dunque in queste condizioni fino alla terza settimana di luglio. Con il Senato “sorvegliato speciale”, perché è là che la maggioranza ha soli quattro voti di scarto. Ed è là che i Cinque Stelle dovranno dare la prova di tenuta più difficile, come avverte lo stesso Salvini. Nel gioco del cerino è il M5S che corre il pericolo maggiore di bruciarsi. Mentre Conte sarà costretto a mediazioni sempre più faticose. Stavolta non tanto tra Lega e M5S, ma tra Salvini, con Di Maio di nuovo al seguito, e l’asse Colle-Tria. Quello che guarda alla stabilità dell’Italia e ai numeri dell’economia.
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