C’è la data, c’è la sede: la Cosa Bianca di Giovanni Toti nascerà il 6 luglio a Roma, con l’ambizione di raccogliere dirigenti locali, consiglieri e sindaci civici in un nuovo rassemblement che in prospettiva offra a Matteo Salvini la terza sponda che gli è necessaria per resuscitare un centrodestra senza Silvio Berlusconi. La seconda gamba sarà come è ovvio Giorgia Meloni, grande sponsor dell’operazione Toti. Un azzardo che per molti versi ricorda il vecchio schema che nel ’94 trasformò “l’impresentabile” Movimento Sociale, con la sua storia troppo legata al neofascismo, nella nuova Alleanza Nazionale, possibile partner di governo. Solo che adesso “l’impresentabile”, il non-alleabile, quello che Lega e FdI respingono come coinquilino nelle liste elettorali, è il Cavaliere. E l’intento del trio Salvini-Meloni-Toti è chiaro: prendersi i suoi voti senza doversi accollare lui.
Funzionerà? È possibile. L’agonia di Forza Italia è un dato di fatto, al copione del rinnovamento congressuale promesso dall’inner circle berlusconiano nessuno crede più. È stato ripetuto troppe volte e tutti hanno ben presente l’uso spregiudicato che Arcore ha fatto della parola “svolta” in passato, a partire dall’episodio-cult delle primarie del 2012 revocate una settimana prima del voto. Per di più la data in autunno di queste improbabili assise è largamente scavalcata dall’ipotesi di una crisi in estate e di elezioni anticipate a stretto giro: pure se FI dovesse aprire i recinti in ottobre, li troverebbe già vuoti da tempo. E tuttavia nei ranghi di FI c’è classe dirigente, esperienza, e soprattutto c’è un tesoretto elettorale indispensabile al sogno salviniano di emanciparsi dal Movimento Cinque Stelle. Ovvio che ci si chieda come trasferirlo altrove.
Toti o non Toti, una qualche Cosa Bianca in Italia dovrà necessariamente nascere. La vecchia regola sulla politica che non tollera vuoti ha una sua esattezza, e il buco al centro dell’offerta politica italiana è evidente: dentro ci sono tutti gli elettori indisponibili a votare Lega, Pd e Cinque Stelle ma potenzialmente interessati a un partito moderato che temperi la foga e le imprudenze delle tre forze maggiori (forse solo due, se il M5S continuerà nel suo declino). Non è un caso che si favoleggi ogni giorno di imminenti discese in campo proprio lì, al centro, in quello che per vent’anni è stato il reame del Cavaliere e adesso è un regno più piccolo ma sempre decisivo. Anche Carlo Calenda e Matteo Renzi puntano i binocoli in zona, per non parlare del gossip sulla possibile discesa in campo di Urbano Cairo.
Sì, perchè al centro, non c’è solo l’8 o il 10 per cento di Forza Italia ma anche uno spicchio dell’astensionismo, al quale va sommato il 4-5 per cento raccolto più o meno in tutti i Comuni e Regioni dalle liste di derivazione post-democristiana o post-forzista. Ma c’è, soprattutto, la più tradizionale fra le tendenze politiche italiane: il moderatismo, il ne’-di-qua-ne’-di-là, la logica dell’utilità marginale che nella Prima Repubblica – alla quale la legge elettorale vigente riporta giocoforza – consentì a formazioni minuscole come il Pri e il Pli di aggiudicarsi ministri e persino presidenti del Consiglio. Insomma, questo centro italiano è un luogo assolutamente promettente anche senza i grandi numeri dei principali partiti. Stupisce che il solo a non essersene accorto sia il suo attuale titolare, Silvio Berlusconi, che peraltro conferma l’antica incapacità delle leadership molto forti, molto celebrate, molto potenti, di assicurarsi una successione all’altezza e la loro irrazionale aspirazione a un epitaffio che dica: dopo di lui, il diluvio.
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