La settimana nera dell’industria italiana. Così verrà ricordata. La sequenza di episodi – alcuni noir, tutti critici – mostra la debolezza del tessuto produttivo italiano. Evidenzia le crepe dell’edificio economico, civile e sociale. Fa trasparire il senso di disorientamento di un organismo – appunto il nostro sistema industriale – che inizia a sperimentare un affanno strategico.
Il calendario funesto. Lunedì, martedì, mercoledì, giovedì e venerdì. Giorno dopo giorno, le tessere hanno composto il mosaico delineando le diverse tipologie di debolezze.
•Timeline: da Mercatone a Whirpool, tutto in 5 giorni
Lunedì 3 giugno la procura di Milano formula l’ipotesi di reato di bancarotta fraudolenta per la Shernon Holding, capogruppo di 55 punti vendita Mercatone Uno, 1.800 addetti coinvolti. Martedì 4 giugno Unilever annuncia lo spostamento della produzione del dado Knorr dallo stabilimento di Sanguinetto, in provincia di Verona, in Portogallo: la procedura di licenziamento collettivo riguarda 76 dipendenti su 161. Rimangono in Italia, nell’impianto veronese, le confetture e la risotteria. Meglio di niente, si dirà: insomma… Mercoledì 5 giugno l’Arcelor Mittal mette in cassa integrazione, nell’acciaieria di Taranto, 1.395 addetti della Ilva. Quasi un dipendente su cinque. E, non paga, la multinazionale nata dalla fusione fra i francesi di Arcelor e gli indiani di Mittal ha già fatto sapere che, se necessario, la contrazione del mercato siderurgico internazionale potrebbe richiedere più avanti un secondo giro di cassa integrazione.
Giovedì 6 giugno, la campagna di Francia diventa la ritirata al di qua delle Alpi: Fca prima formula e poi fa decadere la proposta di fusione paritetica con Renault. Venerdì 7 giugno cade la prima settimana di tregenda alla Whirlpool di Napoli: la casa madre americana, che ha comprato nel 2014 in Italia la Indesit della famiglia di Vittorio Merloni, ha deciso di interrompere la produzione di lavatrici di alta gamma e vuole cedere ad altri questa fabbrica: 412 addetti a casa.
Chi siamo e quali limiti abbiamo. Ognuno di questi casi ci dice qualcosa. Racconta chi siamo. Spiega quali sono i nostri limiti. Il sistema industriale italiano conserva senz’altro le sue eccellenze, grazie alle quali l’economia è rimasta agganciata alle catene globali del valore e il Paese è rimasto in piedi nonostante la marginalizzazione crescente sulle cartine della geo-politica e della geo-economia internazionali, l’arcaicità illiberale e ignara della competizione di mercato dei servizi, la mole del debito pubblico sempre crescente e ormai anche liberata da ogni forma di tabù grazie a un ceto di governo per cui non è detto che i debiti vadano ripagati, la divaricazione crescente fra Nord e Sud. Il nostro sistema industriale non riesce però a superare il paradigma del 20-80: il 20% delle imprese a cui si deve l’80% del valore aggiunto industriale e l’80% dell’export. Un sistema industriale che, dopo avere assistito dal 2008 alla drammatica consunzione del 20% del suo apparato produttivo, sperimenta sbandamenti strategici che, in tutte queste vicende, sono ben rappresentati.
Il (duro) confronto con la globalizzazione. La storia di Mercatone Uno non è soltanto una vicenda noir in cui il rischio di impresa diventa fallimento e il fallimento assume tratti – ipotizzati dalla magistratura – di rilevanza penale. È prima di tutto la storia di una sconfitta. La sconfitta è quella della globalizzazione nella sua versione di ramazza di ciò che non funziona. Di killer delle inefficienze. Di costruzione di nuovi modelli. Nel 1989 in Italia, a Cinisello Balsamo, apre Ikea. Design scandinavo, che peraltro nelle sue versioni più sofisticate e meno pop scalzerà anche nelle gerarchie concettuali e culturali il senz’altro ripetitivo e forse insterilito design italiano, prezzi bassi, ottima qualità e poi tutti a mangiare le polpettine, una novità che testimonia l’ingresso dell’Ikea nell’immaginario e nelle abitudini degli italiani. Gli anni Novanta sono il periodo dell’apertura e dell’integrazione dei mercati. Mercatone Uno – e tutti i produttori italiani di mobili a basso costo – vengono letteralmente spazzati via. Ikea li sostituisce nella catena di fornitura nel nostro Paese. Ikea ha il mondo come magazzino. La sua forza è la logistica e la finanza. Ikea è il senso della globalizzazione che unisce produzione, logistica, mercato finale.
Gli investimenti (e, soprattutto, i disinvestimenti). Ogni impresa fa quello che crede utile al suo business. Questo è il principio fondante di ogni strategia aziendale. Il capitalismo funziona così. Ovunque. Nei sistemi a capitalismo più estremo, come quello nordamericano. In quelli più temperati, come in Europa. Nei sistemi che sono in apparenza “altra cosa”, come il socialismo tecno-aggressivo e turbo-finanziario della Cina di Xi Jinping. Ogni impresa fa quello che decidono due soggetti: in subordine il management e soprattutto chi la controlla, non importa che siano famiglie, investitori professionali, azionisti di Borsa, partiti unici o oligarchici. Gli investimenti realizzati all’estero da ogni impresa sono linfa vitale. L’autarchia è la fine di ogni meccanismo economico e industriale, sociale e civile. Il punto è che gli investimenti diretti esteri hanno un problema: sono, appunto, esteri. Chi decide è lontano. Chi decide valuta e verifica, compara e confronta le asimmetrie fra un Paese e l’altro. E quando un Paese ha le caratteristiche del nostro – cuneo fiscale strabordante, giustizia civile lenta e inefficiente, stratificazioni legislative – può capitare che il tema del costo del lavoro, che spesso le sintetizza e contempera tutte, divenga un fattore di riflessione e di scelta. Come nel caso di Unilever, vicino a Verona. E la cosa è ancora più triste, se si pensa che tutto questo riguarda il dado Knorr, un pezzo dell’immaginario e della memoria dell’Italia del Boom Economico, quando eravamo felici e avevamo soltanto un futuro da costruire e non un passato da rimpiangere.
La politica senza amore per l’industria. Non c’è nulla di più politico che la manifattura. La fabbrica è un coacervo di uomini e organizzazione, tecnologie e interessi. Le fabbriche possono ammalarsi. E possono ammalarsi i corpi sociali ed ambientali circostanti ad esse. La vicenda Ilva è una vicenda di malattia. La sua patologia è di lungo periodo: errata la prospettiva dell’industrializzazione pubblica del Sud di quarant’anni fa, ambigua la cultura novecentesca che non considerava l’impatto sull’ambiente dell’industria, sbagliata in quel contesto l’efficienza privata e privatistica di imprenditori del Nord eccellenti come i Riva, tremendamente distruttivo il groviglio fra magistratura-industria-politica che ha provocato lo stallo per anni dell’Ilva. E, ora, la proprietà di Arcelor Mittal. Arcelor Mittal è nella piena legittimità di usare nei suoi stabilimenti gli ammortizzatori sociali. La siderurgia internazionale è in piena rimodulazione.
La domanda, in Europa, è crollata. Il problema è che Taranto non è Vicenza, Rennes, Stoccarda o Coventry. Taranto è Taranto: la capitale industriale del Mediterraneo, uno dei luoghi a più alto tasso di dolore civile e personale, una polveriera prossima ad esplodere, la nuova mafia pugliese pronta a prendere piede in città. A fronte di tutto questo, l’esercizio della razionalità manageriale da parte di Arcelor Mittal è possibile soltanto per la debolezza della controparte politica e civile. Nulla è più politico della manifattura. Per questa ragione la politica – ovunque, in Francia e in Germania, in Cina e negli Stati Uniti – si occupa costantemente della manifattura. Con più o meno distanza, con più o meno interventismo, in maniera diretta o adoperando la logica della costruzione delle condizioni e dell’ambiente favorevole. Ma se ne occupa. La politica italiana è debole e contradditoria, irrazionale e emotiva, senza passione per il lavoro e priva di amore per l’industria. E questa politica italiana permette l’esercizio di una pura razionalità manageriale che fa male alla fabbrica e alla comunità.
Il doppio sbandamento: strategico e tecnologico. Proviamo ad astrarci dalle critiche preliminari alle ipotesi di fusione fra Fca e Renault, che aveva incognite industriali, tecnologiche e finanziarie, e all’ipotesi di matrimonio a tre con Nissan, che avrebbe cambiato la geografia mondiale dell’auto, creando il primo gruppo internazionale per macchine vendute, presente su tutti i mercati, leader nell’elettrico. Proviamo a non considerare il tema della convergenza – o della divergenza – dell’interesse degli azionisti di controllo – gli Agnelli Elkann, da anni impegnati a ridurre il peso dell’auto nel portafoglio di investimenti di Exor – e dell’interesse dell’impresa Fca, che da sola di certo non può rimanere. I due temi che producono uno sbandamento al sistema industriale sono uno di natura strategica e uno di natura tecnologica. Il primo di natura strategica non è una causa, ma un effetto. Da dieci anni Fca, che nella sua fisiologia non è più italiana da quando i ricavi e gli addetti italiani sono andati sotto il 10% del totale, ha costruito una architettura societaria e fiscale tutta, ma proprio tutta, all’estero.
Fra Londra e Amsterdam. Dunque, lo sbandamento strategico è un fenomeno ormai consolidato, con gli uffici svuotati e le funzioni aziendali assottigliate a Torino, oggi sempre più deindustrializzata. Una cosa avvenuta senza che l’educato establishment progressista – nella sequenza dei governi Monti, Letta e Renzi – alzasse la mano per chiedere, anche educatamente, spiegazioni e per discutere dell’opportunità di questa architettura europea, vantaggiosa a fini fiscali e ai fini del controllo degli azionisti sulle operazioni straordinarie. Lo sbandamento di natura tecnologica ha invece una diretta connessione con il fallimento dell’operazione Renault. L’operazione Fca-Renault, che avrebbe presentato non poche incognite, avrebbe avuto sicuramente un vantaggio: avrebbe dato al sistema industriale nazionale – per quanto in indiretta connessione con un gruppo apolide come Fca – accesso al progetto congiunto fra Francia e Germania sulla catena del valore dell’elettrico. Un progetto con risorse private e pubbliche, che avrebbe consentito all’Italia di provare a colmare i deficit strutturali sulla nuova frontiera tecnologica dell’automotive industry, che riguardano sia la fu Fiat sia la nostra componentistica. Noi non partecipiamo per definizione in alcun modo al Battery Airbus – nome del progetto europeo, sulla scorta del progetto nell’aeronautica e nell’aerospazio di cinquant’anni fa, alternativo a Boeing – che da subito cuberà più di 5 miliardi di euro di investimenti. Senza Renault-Fca, continuiamo a non parteciparvi.
Il destino del capitalismo familiare. Il caso Whirlpool di Napoli non è solo il caso Whirlpool di Napoli. Intendiamoci, in sé è già molto. È il tema dell’industria del bianco, uno dei cuori dell’industrializzazione italiana del secondo dopoguerra, che è stata erosa alle fondamenta dalla concorrenza dei Paesi dell’Est, evoluti tecnologicamente soprattutto grazie alla costruzione di filiere generate dalla manifattura tedesca e competitivi in senso comparato perché con costo del lavoro inferiore rispetto all’Italia. E’ la questione del Sud, perché a Napoli 412 addetti impegnati a costruire lavatrici di alta gamma – a Napoli, non a Parma o a Vicenza – sono tanti, sono tantissimi. Ma il caso Whirlpool racconta anche altro. Whirlpool racconta la scelta di molte famiglie di imprenditori italiani di smettere di fare industria. I Merloni (ramo Vittorio), che hanno venduto la Indesit nel 2014, sono soltanto una delle tante famiglie storiche del nostro capitalismo industriale che, a un certo punto, hanno scelto di fare altro. Hanno venduto a investitori stranieri o hanno costruito il meccanismo ambiguo della fusione con concambio azionario che, alla fine, le hanno trasformate da famiglie di imprenditori a famiglie azioniste. Sono scelte legittime. Compiute ormai da tutto il nucleo dell’industrializzazione storica italiano. Il capitalismo familiare storico non esiste più, se non in minima parte. Da industriali che sono stati – per decine di anni, in alcuni casi addirittura per secoli – i fondatori dell’Italia manifatturiera – in Piemonte, in Lombardia, nelle Marche, in Toscana, in Veneto – sono diventati facoltosi signori, beneficiari di posizioni private banking, clienti di family office fra la Svizzera e Hong Kong, proprietari di società personali con cui fare investimenti appunto personali, titolari di holding con cui esercitare il neutrale e asettico mestiere dell’investitore. Senza più l’odore della fabbrica. Quell’odore che, nonostante tutto, resta l’odore dell’Italia. E, l’importanza di quell’odore, lo si capisce tanto più nella settimana nera dell’industria italiana.
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