Ci mancava solo un attacco diretto da parte di Nicola Zingaretti per fare l’en plein di stoccate nei confronti di Carlo Calenda. Quella che doveva essere l’ennesima resa dei conti nel Partito Democratico, si è trasformata in una rivolta contro l’ex ministro dello Sviluppo economico, colpevole di eccessivo protagonismo. Si è passati, insomma, dal “tutti contro tutti” al “tutti contro Calenda”. Che è riuscito nel miracolo di mettere d’accordo le diverse anime del Pd, sempre sull’orlo della guerra civile.
L’attesa era tutta per le parole del segretario, chiamato, ancora una volta, a spegnere i focolai interni, seguiti alla contestata nomina della segreteria politica (priva di rappresentanza delle minoranze) e alla gestione del caso legato alle intercettazioni che hanno coinvolto Luca Lotti, nell’ambito del caos esploso sulle nomine del Csm, costretto all’autosospensione. Il discorso di Zingaretti, tutto incentrato sulla richiesta di unità “per non vanificare la ripresa registrata alle ultime elezioni europee ed amministrative”, ha parzialmente soddisfatto le minoranze, che, nonostante i mal di pancia, hanno deposto l’ascia di guerra. Quanto durerà questa volta la tregua armata non è dato a sapersi, ma anche per oggi il pericolo è scampato.
Cosa c’entra in tutto questo Calenda? Difficile dirlo, ma l’impressione è che sia diventata una sorta di vittima sacrificale, di capro espiatorio da utilizzare per rattoppare un partito e una comunità sempre più lacerati. È un caso che il leader di “Siamo europei” sia finito sotto il fuoco di fila di tutte le aree del Pd, dall’ideologo di Zingaretti, Goffredo Bettini, al peso massimo della maggioranza Gianni Cuperlo, dal colonnello di Roberto Giachetti, Luciano Nobili, al leader della corrente Base riformista, la più numerosa tra i parlamentari dem, Lorenzo Guerini? Pare proprio di no.
Calenda è finito al centro della furia dem sostanzialmente per due motivi. Il primo, prettamente politico, è il suo progetto di costituzione di un partito liberaldemocratico. Il secondo è invece più personale, dovuto ai suoi modi, tutt’altro che diplomatici, di porre le sue istanze all’attenzione del dibattito pubblico. In questo senso, non è andata giù la frase, data in pasto ai suoi follower su Twitter, in cui, esasperato dalle infinite discussioni interne al Pd, ha detto di “vergognarsi di aver chiesto voti per questo partito”. Parole a cui hanno ribattuto vigorosamente i dem, in particolare Nobili che nel corso del suo intervento ha detto che “questa è l’ora della discussioni, purché la cosa non turbi Calenda”.
Ma dietro gli attacchi personali c’è qualcosa di più, ossia la bocciatura sostanziale (e diffusa) della teoria delle cosiddette gambe a sostegno del Pd. L’ex ministro nei giorni scorsi ha più volte dato la sua disponibilità a creare una forza di centro, liberaldemocratica, che provasse ad intercettare consenso alla destra del Pd, se fosse stato un progetto condiviso con la dirigenza dem. E lo stesso sarebbe potuto essere per una “gamba” ambientalista e magari un’altra più a sinistra. Questa suggestione, oggi come oggi, è stata spazzata via, immolata sull’altare della ritrovata “vocazione maggioritaria”.
Gianni Cuperlo ha stigmatizzato l’idea di una “scissione in franchising“, Goffredo Bettini (suscitando l’immediata reazione del neo europarlamentare dem) ha chiesto a Calenda di prendere una decisione sul suo futuro e gli ha ricordato che “se è vero che lui ha preso i voti per il Pd, è altrettanto vero che il Pd ha preso i voti pure per lui”. Lorenzo Guerini, riferendosi a Calenda, ha detto a Zingaretti di stare attendo ai “politicismi”. I renziani, in effetti, hanno un motivo in più per osteggiarlo, dato che l’obiettivo dell’ex ministro è andare ad occupare quell’area politica che corrisponde proprio alle mire centriste delle componenti legate all’ex premier. Non per nulla, tra i gruppetti che fanno capo al senatore di Scandicci, qualcuno, informalmente, si è lasciato sfuggire l’espressione “dobbiamo mettere Calenda nel mirino”.
La grande incognita è cosa succederà ora. Un drappello di esponenti del Pd (si contano sulle dita di una mano e forse sono pure troppe) sarebbe anche disponibile a seguire Calenda nella costituzione di un nuovo soggetto, che però sarebbe né più né meno che un partito personale. “È possibile che la spinta centrifuga giunta oggi dalla Direzione lo spinga ad accelerare“, ci spiega un parlamentare di stretta osservanza renziana, che conosce bene l’ex ministro. “Potrebbe diventare per il centrosinistra ciò che la Meloni è per il centrodestra, un partito che oscilla tra il 5 e il 6 per cento. Ma il timore è che quei voti, più che sommarsi a quelli del Pd, finiscano per sottrarli”.
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