La sensazione è che l’abbiamo sfangata. Per ora. L’ipotesi di procedura d’infrazione per debito eccessivo sembra allontanarsi dall’Italia: rinviata a ottobre, o gennaio, forse addirittura scongiurata. Sulla “vertenza Italia” stanno lavorando due fattori: una serie di garanzie in contropartita prefigurate da Tria – sostanzialmente gli otto miliardi di risparmio di quest’anno, e la promessa di tenere sotto controllo la spesa pubblica – e un lavoro politico diplomatico giocato alternando garanzie sui conti e paletti sulle nomine di vertice della Ue.
Restano le riserve europee ovviamente, le tirate d’orecchie sulla scarsa produttività, la diffidenza verso il governo italiano. Ma è evidente un allentamento di tensione in corso e il successo, per ora, di un lavoro diplomatico come si diceva serrato di cui le parole di Sergio Mattarella, pronunciate ieri in Austria, sono l’epifania. “La procedura d’infrazione – dice il presidente – non ha ragione di essere aperta”. I motivi addotti da Mattarella sono che il disavanzo pubblico è passato dal 2,4 al 2,1 per cento tra il 2017 il 2018, l’avanzo primario dall’1,4 all’1,6, inoltre c’è una condizione di base di grande solidità dell’economia italiana. Insomma secondo il presidente della Repubblica “il governo sta presentando alla Commissione tutti gli elementi per dimostrare che i conti saranno in ordine”.
Un assist quello di Mattarella al premier Conte e al ministro dell’Economia Tria impegnati in queste ore oltre che sul fronte europeo a convincere il resto del governo, e in particolare il viceministro Salvini, a non abusare dei margini che sembrano aprirsi e tirare la corda, immaginando politiche in deficit come la flat tax. E in effetti, come confermano voci di palazzo, Mattarella non avrebbe pronunciato certe parole se l’ordito di mediazione non fosse in stato avanzato e molto vicino a una soluzione positiva. Un ordito di cui un pezzo fondamentale riguarda appunto il risiko delle nomine per il vertice istituzionale dell’Unione dove il premier Conte ha avuto il sostegno del ministro degli Affari esteri Moavero, la copertura di Mattarella e la superconsulenza strategica di Mario Draghi che conosce a memoria il sistema nervoso europeo.
Va anche segnalato che nei giorni scorsi dopo le scintille sui minibot – duramente criticati dall’ex presidente della Bce – era arrivato nei confronti di un’ipotesi Draghi al vertice della commissione europea anche l’endorosement di Salvini. A dimostrazione che malgrado le divisioni politiche interne esiste un fronte spontaneo il cui minimo comun denominatore è sventare lo scontro frontale con l’Europa. Scontro che nemmeno l’Ue auspica essendo più interessata semmai a un compromesso che salvi il principio delle regole da rispettare senza la necessità di dover comminare punizioni che avrebbero come effetto di rinfocolare l’offensiva populista nel sud Europa.
E così il punto di caduta di questa trattativa potrebbe essere come si dice un aggiornamento tra sei mesi – gennaio 2020 – un tempo che l’Ue concederebbe all’Italia per sistemare i conti, chiudere ipotesi di uscite future e scongiurare sanzioni. Insomma l’Europa prenderebbe per ora atto delle rassicurazioni di Tria sull’utilizzo dei due miliardi di euro risparmiati derivanti dai tagli ai ministeri e previsti dalla legge di bilancio, sulle maggiori entrate della fatturazione elettronica, sui dividendi delle partecipate e su quello della Cassa depositi e prestiti che dovrebbe portare al Mef circa 800 milioni di euro.
A questo devono aggiungersi i risparmi provenienti dal reddito di cittadinanza e quota 100 che si aggirano intorno ai 3 miliardi. Resta però l’incognita sugli impegni per il 2020: Bruxelles chiede infatti garanzie di un’ulteriore riduzione del deficit di due decimali, un accordo su cui Bruxelles potrebbe chiudere la partita con l’Italia. Ma è proprio questo il nodo: Salvini accetterà? Giancarlo Giorgetti, il numero due di via Bellerio – e l’uomo che oltre che ad avere ottime entrature europee ha nella Lega ha i rapporti migliori con Draghi, Mattarella e Tria – si è espresso in queste ore in modo molto critico sull’ipotesi di stop alla Flat tax: «Se il rinvio della procedura d’infrazione è un escamotage per portarci in un terreno dove le riforme non si possono fare – ha detto il sottosegretario alla presidenza del consiglio – non ci sta bene».
Insomma il timore è quello di essere rimandati per poi essere bocciati a settembre. Dunque se nel governo c’è concordia sugli obiettivi dell’assestamento di bilancio si tratta di capire che soluzione verrà trovata sulla definizione e il finanziamento delle policy e in particolare sulla Flat tax. Misura che Salvini e i suoi continuano a ritenere irrinunciabile. “In deficit o no la faremo” ribadiscono i leghisti con il sostegno dei Cinque Stelle. Ma resta appunto il dilemma di come conciliare un nuovo taglio alle spese con una riforma fiscale da 15 miliardi di euro. È questa la via stretta, la cruna dell’ago dentro cui vuol Salvini vuole passare.
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