Una lettera che apre un’altra, l’ennesima, faglia all’interno del Partito Democratico. Anche questa volta la firma è quella di Matteo Renzi che ieri, in un lungo intervento pubblicato da Repubblica, ha usato parole molto dure sull’approccio che il Pd ha avuto negli scorsi anni sul tema immigrazione. Anzi, lo considera il motivo principale del declino del partito. In sostanza, troppa esasperazione sul tema degli sbarchi e poco coraggio sullo ius soli.
Per l’ex premier si è trattato di una “geometrica dimostrazione d’impotenza: allarmismo sugli sbarchi, mancanza di coraggio sui valori. Il successo di Salvini inizia lì”. La questione dei flussi migratori nel Pd “l’abbiamo sopravvalutata quando nel funesto 2017 abbiamo considerato qualche decina di barche che arrivava in un Paese di 60 milioni di abitanti, ‘una minaccia alla democrazia’”.
Un attacco diretto, violento, a Paolo Gentiloni e a Marco Minniti. E le smentite che arrivano nelle ore successive dai renziani non fanno altro che confermare la cosa. L’attuale presidente del Pd finisce nel mirino per non aver avuto il coraggio di mettere la fiducia sullo ius soli, l’ex ministro dell’Interno per aver contribuito ad esasperare il clima sui flussi migratori, definendoli un rischio per la tenuta democratica del Paese. Una frase che fece discutere già ai tempi, tanto che lo stesso Minniti fu costretto a precisare che “il pericolo non sono i flussi ma la gestione sbagliata di essi”.
Non è la prima volta che Renzi attacca la linea Minniti. Lo ha fatto per la prima volta, dopo averne lodato l’operato per i due anni precedenti, il 20 marzo scorso, quando ringrazia Matteo Orfini per il suo operato da presidente dem e rilancia un suo intervento su LeftWing, sottolineando di “condividere totalmente ciò che Matteo scrive sui lager libici”. Va riconosciuto, però, ad Orfini di aver sempre mantenuto una posizione scettica sull’operato di Minniti, a differenza di Renzi che fino alle scorse primarie ne ha sempre parlato come di un modello da seguire. Prima che lo stesso Minniti non lasciò la componente renziana senza un candidato per il congresso.
Più o meno le stesse tempistiche del suo cambio di approccio nei confronti di Paolo Gentiloni, ritenuto sostanzialmente un traditore irriconoscente. Era stato Renzi a volere Gentiloni alla Farnesina, era stato Renzi a fare il suo nome a Mattarella per succedergli in seguito alle dimissioni post-referendum. Ma dopo il cambio della guardia a Palazzo Chigi, qualcosa tra i due si è rotto. Prima sotto traccia, poi in maniera sempre più evidente. Dal caso Visco-Bankitalia fino all’asse con il Quirinale per evitare le elezioni anticipate in “funesto 2017”, la diffidenza reciproca è cresciuta fino a sfociare in una vera e propria guerra fredda dopo che Gentiloni ha deciso di sostenere Zingaretti nella corsa alla leadership dem (cosa che, dopo qualche settimana, fece anche Minniti).
L’attacco di oggi è frutto di mesi di rancore, che Renzi non riesce in alcun modo a mettersi alle spalle. Non tanto nei confronti del nuovo segretario, quando più verso chi “non ha dimostrato gratitudine nei suoi confronti” (parole testuali dei suoi più vicini collaboratori), da Gentiloni a Minniti, da Delrio a Martina, per non parlare di Franceschini. E così, l’attacco sulla mancata fiducia sullo ius soli investe tutto il governo Gentiloni, ma dimentica di menzionare il fatto che mentre il premier era Renzi ci furono ben quattordici mesi di tempo per mettere la fiducia al Senato, cosa che l’ex rottamatore si guardò bene dal fare per non ferire sensibilità conservatrici in piena campagna referendaria.
Cosa c’è dietro queste ennesimo attacco a freddo di Renzi? Difficile immaginare in cosa possa sfociare tutto questo rancore. Per il momento al senatore di Scandicci sta benissimo fingere di fare il battitore libero, il conferenziere in giro per il mondo che ogni tanto si toglie qualche sassolino dalla scarpa. I tempi per una rottura non sono maturi. Allora meglio stare alla finestra e ricominciare a muovere qualche pedina. La vicenda che ha investito Luca Lotti cambierà gli equilibri tra i renziani. Il ritorno in prima linea di Maria Elena Boschi è ormai più che una suggestione e qualche altro fedelissimo come Roberto Giachetti potrebbe assumere ruoli sempre più importanti nella galassia dell’ex premier. Tante altre variabili (dalla durata della legislatura alla tenuta di Zingaretti) contribuiranno a stabilire il grado di movimentismo di cui sarà capace tutta la componente.
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/07/06/renzi-pd-gentiloni-minniti-lettera/42785/