Concentrati sulla “splendida cornice” del Papeete e sulla comparazione tra il dress code marittimo di Aldo Moro e quello di Matteo Salvini, ci eravamo dimenticati di Luigi Di Maio. Sparito dai radar delle cronache, politicamente invisibile, il vicepremier e ministro del Lavoro – leader dimidiato del Movimento Cinquestelle – appare del resto sempre più ormai come una figura in dissolvenza sulla scena pubblica italiana.
Costretto dal disastro elettorale del 26 maggio a una posizione difensiva se non subornata rispetto al potente alleato leghista, bersaglio di una fronda sempre più decisa e insidiosa interna al Movimento, Di Maio ormai sembra capace di giocare solo di rimessa e però simulando la postura di chi detta ancora l’ordine del giorno.
Ieri, per dire, durante l’incontro con le parti sociali s’è lanciato in una proposta – di per sé ragionevole e non originale – sulla riduzione del cuneo fiscale definita “punto focale per poter rilanciare l’economia”. Peccato che sia poco meno di una provocazione, una puntura di spillo a Salvini che nella prossima legge finanziaria punta invece alla Flat tax, proposta a cui Di Maio non potrà dire di no. Salvo magari incoraggiare il ministro dell’Economia Tria a tenere sotto pressione Salvini sulle coperture necessarie. Una proposta quella di Di Maio sulla riduzione del cuneo fiscale che resterà dunque e naturalmente un’esercitazione retorica, un modo tra gli altri – occasionali e improvvisati – per marcare la propria rilevanza, mentre tutto intorno testimonia al contrario d’una continua emorragia di presenza e di credibilità.
A contestare apertamente Di Maio sono ormai anche i rider, soggetti sociali la cui battaglia Di Maio s’era rumorosamente intestata. La norma a loro tutela contenuta nel prossimo decreto del governo annunciata dal vicepremier viene definita dai rider di Bologna – i primi a portare avanti la battaglia per i diritti dei lavoratori delle piattaforme digitali – “un provvedimento inutile e deludente: nessun passo in avanti sulla qualifica contrattuale e addirittura nessuna abolizione del cottimo”. Un provvedimento cosmetico.
Città di dolori Bologna in queste ore per Di Maio. Dal capoluogo emiliano arrivano anche le dimissioni di Massimo Bugani, il colpo forse più duro e allarmante per il vicepremier pentastellato. Esponente storico del Movimento Cinque Stelle, socio di Rousseau, uomo di collegamento tra il Movimento e il quartier generale di Davide Casaleggio, Bugani non lascia il ruolo di vicecapo della segreteria particolare di Di Maio a Palazzo Chigi per dissensi personali. C’è qualcosa di più dell’intervista al Fatto Quotidiano dove Bugani chiedeva una maggiore inclusione di Di Battista al vertice del Movimento (intervista presa molto male da Di Maio).
Le dimissioni di Bugani sono piuttosto un atto di sfiducia politica che l’altro Movimento (quello che fa capo a Casaleggio e che in Fico e Di Battista ha in questa fase i suoi terminali politici) ha voluto notificare a Di Maio.
L’accusa che l’altro Movimento rivolge al ministro del Lavoro è qualcosa di più dell’incapacità palmare di contrastare l’onda dell’iniziativa politica salviniana, è un’accusa – nemmeno tanto implicita – di “intelligenza con il nemico”. Di Maio verrebbe percepito da settori sempre più larghi del Movimento Cinquestelle come la polizza sulla vita di un esecutivo a guida oggettivamente leghista che tuttavia nel suo durare garantisce all’attuale leader grillino e ai suoi deputati una sopravvivenza politica tutta centrata sul particulare. Detto in termini meno aulici garantisce loro – e non solo a loro – la possibilità di restare seduti sulle comode poltrone di Montecitorio e di Palazzo Madama, così da goderne il più a lungo possibile gli indiscutibili e irreplicabili benefit.
Certo a Di Maio non manca l’abilità dialettica per rovesciare l’accusa che gli viene mossa, quella di voler durare a tutti i costi, e su Facebook scrive: “Chi tifa per la caduta del governo è perché ha paura di non essere rieletto. Ha paura di trovarsi un lavoro come tutte le persone normali. Noi questa paura non ce l’abbiamo. A noi della poltrona non ce ne frega nulla. Il Movimento 5 stelle lavora per fare cose giuste, non per il consenso”. Un messaggio che, a parte le facili ironie cui potrebbe esporsi, sembra più rivolto all’interno dell’area pentastellata che al mondo di fuori.
E del resto anche questa trovata del taglio dei parlamentari è un’astuzia dell’abile Luigino per blindare la legislatura. Se dovesse infatti essere votata la tentazione di andare al voto diventerebbe molto meno bruciante e ossessiva anche tra i ranghi della compagine leghista.
Insomma, pur sconfitto pesantemente alle europee, dimezzato come leader, sfiduciato da una parte influente del suo partito, messo all’angolo dall’alleato leghista, sconfitto sulla Tav per mano del “suo” premier Conte, Di Maio non solo non ha alcuna intenzione di togliere il disturbo – figurarsi – ma sembra deciso a una resistenza a oltranza. Deciso a puntare tutto sulla vera carta che ha in mano: la maggioranza che ha in Parlamento e che oggi risulta decisiva per la sopravvivenza della legislatura. Un obiettivo a cui dentro le Camere, leghisti a parte, guardano politicamente tutti e non solo i poltronisti. Perché se la legislatura durerà – in forme anche diverse da quella dell’attuale esecutivo – sarà questo Parlamento a eleggere il presidente della Repubblica. Altrimenti sarebbe un nuovo Parlamento monocolore leghista: una prospettiva questa che dà molto da pensare anche a chi, ogni giorno, chiede il voto anticipato per farla finita col governo della rissa continua in permanente stato d’eccezione.
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