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Huawei
«Amo la Cina, sostengo il partito comunista ma non ho mai ricevuto alcuna richiesta da alcun governo di fornire informazioni inappropriate». Ren Zhengfei, ex ingegnere dell’Esercito popolare e fondatore del colosso delle tlc Huawei rompe il silenzio per difendere la sua azienda dalle accuse di spionaggio.
Ren in tutta la sua vita ha parlato con la stampa solo tre volte ed è dal 2015 che non si fa vedere in pubblico. Riservato, misterioso, discusso, il capo di Huawei è uno degli uomini più potenti della Cina, ma ha conservato modi schivi e umili: gran parte delle cose che dice nella sua ultima e sorprendente conferenza stampa di ieri le legge su dei fogli scritti per lui, ma in certi momenti, quando è più emozionato, parla a braccio con il suo forte accento del sud della Cina. In occidente lo definiremmo un tycoon, parola giapponese che oggi viene usata come sinonimo di capitano d’industria e che è la traslitterazione di ‘shogun’, il titolo che per 250 anni ha avuto il vero capo del Giappone, l’uomo che dal 1600 al 1868 ha messo in ombra l’imperatore, governando di fatto il Paese.
Comandare con l’1 percento
In Cina un tempo gli unici imprenditori erano i ‘taipan’, ovvero il padrone, il boss, parola olandese con la quale si indicavano i comandanti europei delle navi che contrabbandavano oppio. Oggi non c’è un equivalente cinese di tycoon. Sulla stampa cinese quelli come Ren sono definiti ‘qiyejia, che si pronuncia ‘ciegià’ e vuol dire imprenditore, oppure ‘laoban’, cioè ‘datore di lavoro”. Lui ha fondato Huawei, la comanda ma non ne è il proprietario, possiede solo l’1,14% delle azioni della società, il resto non si sa chi ce l’abbia. Huawei è un colosso ma non è quotato in Borsa, i suoi dati sono divulgati con grande parsimonia. Ren comunque è il capo, è un laoban, come ha dimostrato in conferenza stampa: “Se non vogliono che Huawei sia presente in alcuni mercati, la possiamo ridimensionare un po’. Finchè possiamo sopravvivere e nutrire i nostri dipendenti, c’è un futuro per noi”.
Trump? Un grande presidente
Ren ha parlato dal campus di Huawei alla periferia della metropoli meridionale di Shenzen, dove le sue citazioni adornano le pareti degli uffici e i dipendenti parlano di lui in tono riverente. Anche Ren ha parlato in modo riverente di Donald Trump definendolo un “grande presidente”. “Osa tagliare massicciamente le tasse a vantaggio delle aziende – ha detto di Trump – ma bisogna trattare bene le aziende e i Paesi in modo che siano disposti a investire negli Stati Uniti”.
Ren ha usato toni accorati quando ha detto che sua figlia, Meng Wanzou gli «manca molto». Forse è anche per questo che si è mostrato così riguardoso verso Trump, visto che Meng, direttrice finanziaria di Huawei è stata arrestata in Canada il mese scorso, su richiesta di Washington, la quale l’accusa di aver violato l’embargo con l’Iran. Meng non è più in carcere ma è in attesa di sapere se verrà estradata o meno negli Usa.
Tutti ad, un po’ per uno
Ren è una figura leggendaria, dal 2011 ha abbandonato la gestione quotidiana dell’azienda introducendo un sistema di rotazione che consente ai giovani dirigenti di gestire la società per sei mesi. Ma è rimasto il volto dell’azienda, specie nelle occasioni importanti, come quando nel 2015 ha accompagnato il presidente Xi Jinping in una sede Huawei a Londra, oppure alla conferenza di ieri, quando ci ha messo la faccia per difendere la sua azienda.
Una macchia nel passato
La storia di Ren Zhengfei comincia 74 anni fa, quando nasce in un villaggio della provincia povera e rurale del Guinzhou. È il primo di sette fratelli, a metà degli anni ’60 si laurea in ingegneria civile e si ritaglia una carriera all’interno dell’esercito di Liberazione popolare cinese. L’esercito è la sua casa, lui diventa ufficiale, ha la tessera del Partito comunista in tasca, ma non basta, la sua famiglia non ha i quarti di nobiltà giusti nella Cina comunista per aiutarlo più di tanto a mettersi in luce nei ranghi delle forze armate: sua madre è insegnante di liceo, suo padre è un preside, che negli anni della guerra civile fa parte del Kuomintang, il partito nazionalista che si batte contro gli invasori giapponesi, ma poi combatte, perdendo, contro i comunisti, il che non lo rende un genitore modello nella Cina rossa.
Ren eccelle nella ricerca scientifica ma fa poca carriera, forse non è considerato abbastanza affidabile, difficile dirlo visto che le autorità cinesi non hanno mai voluto divulgare il suo vero ruolo nell’esercito. Sta di fatto che nel 1983 lascia la carriera militare: ufficialmente viene epurato, il suo nome rientra tra quelli inseriti nei tagli al personale. Lui comunque non ha difficoltà a rifarsi una vita, a 41 anni, improvvisandosi imprenditore nella Shenzhen South Sea Oil.
Carriera nel Partito
In seguito alla sua trasformazione in imprenditore, Ren Zhengfei è finalmente ammesso all’interno del Partito Comunista cinese. Ne diventa membro in seguito al congedo e, in veste di rappresentante degli imprenditori, prende parte al XII Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese, cioè all’assemblea che riunisce tutti i delegati del partito comunista i quali, ogni 5 anni, eleggono il comitato centrale. Lui stesso spiega che quell’incarico è un premio che gli viene assegnato per una sua invenzione nel settore tessile. Tra le altre cose, Ren Zhengfei è responsabile per i programmi di sviluppo cooperativo delle zone interne della Cina.
Nasce la Huawei
Resta il fatto che il suo ruolo è ambiguo, non fa carriera nell’esercito ma la fa nel partito e nel mondo imprenditoriale: misteri della nomenklatura Nel 1987 esce dalla Shenzen South Sea Oil e quello stesso anno fonda la Huawei, una piccola azienda privata delle tlc, con pochi addetti e rapporti molto stretti col partito comunista. Il nome scelto per il marchio è composto da due caratteri: huá, spesso usato per indicare la Cina ma traducibile anche con «fiore» e wéi, «conquista».
Quel nome è tutto un programma perchè in poco più di 30 anni, dal 1987 a oggi, l’azienda va alla conquista del mondo: supera Apple nella vendita degli smartphone, contende alla svedese Ericsson il primato nel settore delle apparecchiature per far funzionare le reti di telecomunicazione, punta a egemonizzare il 5G, la telefonia del futuro e soprattutto solleva a Washington il sospetto di essere una spia della Cina, una minaccia per la sicurezza Usa. L’ascesa di Huawei in effetti è sorprendente, la sua struttura di governo è opacissima, ma questo non impedisce al gruppo di diventare un gigante che opera in 170 Paesi, ha 170.000 addetti e fattura oltre 100 miliardi di dollari. Il sorpasso di Apple è avvenuto questa estate quando, per la prima volta in sette anni, Samsung e Apple hanno smesso di occupare i primi due posti in classifica nelle vendite globali e Huawei si è insediata al secondo posto, dietro il gigante sudcoreano e davanti a quello americano.
I primi sospetti
Pochi mesi prima, nel febbraio 2018, i servizi segreti statunitensi avevano accusato Huawei e un’altra azienda cinese di essere un pericolo per la sicurezza, lanciando il sospetto che i dispositivi delle aziende cinesi possano agire come cavalli di troia per i servizi segreti di Pechino. È comunque evidente che, mentre sul fronte locale i rapporti con il Partito Comunista e con l’Esercito hanno in qualche modo avvantaggiato l’ascesa di Huawei, a livello internazionale ne stanno frenando fortemente le possibilità di crescita.
5G
Gli apparati telecomunicativi Huawei, ad esempio, non sono ammessi in India, mentre Paesi come Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Gran Bretagna provano a limitarne le mire espansionistiche con misure di varia natura. Negli USA, ad esempio, Huawei non ha potuto portare a termine l’acquisizione di 3Com, mentre il Comitato di Intelligence e Sicurezza della Gran Bretagna ha sconsigliato l’utilizzo di apparati cinesi per il timore che possano essere utilizzati con finalità spionistiche.
Chi c’è dietro?
Ma come nasce Huawei, perchè è così temuta, chi c’è dietro? La società nasce per gestire le vendite di un produttore di centrali telefoniche per uso privato ad Hong Kong. La raccolta di dati e informazioni su questi prodotti permette molto presto ai vertici di iniziare a produrre delle centrali proprie: questi apparecchi ottengono un grande successo nei piccoli villaggi e nei centri urbani cinesi di periferia. Presto la produzione si sposta anche su apparecchi appositamente studiati per hotel e piccole industrie. In poco tempo, durante i primi anni ’90, queste apparecchiature ottengono sempre più successo, spingendo Huawei verso la creazione del suo primo centralino digitale, uno dei più importanti e potenti di sempre sul mercato cinese. L’azienda diventa presto una delle realtà più in vista del settore e la crescita porta i vertici verso una forte quanto inevitabile espansione internazionale.
Alla conquista del mondo
La “conquista” di Hong Kong è il primo passo verso un successo che, dal 1997 in poi, è stato vertiginoso e non si è più fermato. Huawei realizza prima una rete di telefonia fissa e poi inizia a produrre i suoi primi apparati appositamente studiati per la telefonia mobile, allora in pieno sviluppo. Il primo centro di ricerca all’estero viene aperto in India, nel 2000 l’azienda sbarca in Europa, in Svezia e poi negli Stati Uniti, nel 2004 arriva in Italia.
Nel 2002 la società aumenta i suoi affari del 500% in poco più di due anni, superando il mezzo miliardo di dollari: un’esplosione tra le più clamorose mai viste. Il core business rimane per parecchio tempo quello delle reti di telecomunicazioni; ancora oggi molte delle infrastrutture per le telecomunicazioni del mondo sono marcate Huawei. Nel 2005 l’azienda si occupa di gestire la parte tecnologica della rete telefonica fissa e mobile di British Telecom; nel 2008 costruisce la rete mobile su larga scala più grande del Nord America; nel 2009 dà vita ad una delle prime infrastrutture 4G del mondo in Norvegia. Il passo successivo è la creazione di dispositivi smartphone propri, coi quali in breve inflaziona i mercati, a partire da quello cinese, di gran lunga il più grande del mondo.
Meng Wanzhou
Iniziano i guai
Nel frattempo però cominciano i guai, in particolare le accuse di spionaggio, culminate, nel febbraio 2018, in un’udienza al Senato Usa, dove sei pezzi grossi dell’intelligence americana, inclusi i capi di Fbi, Nsa e Cia, consigliano apertamente di boicottare i dispositivi di due aziende di tlc cinesi, Huawei e Zte: “Sono un rischio per la sicurezza nazionale”. Il risultato di queste accuse è che a inizio gennaio, Huawei avrebbe dovuto annunciare una collaborazione con At&t per la distribuzione del Mate 10 Pro sul mercato statunitense, ma l’operatore Usa cancella l’accordo all’ultimo minuto.
L’arresto di Meng
È la prima di una lunga serie di scontri tra le autorità Usa e Huawei, culminati con l’arresto in Canada della chief financial officer di Huawei, Meng Wanzhou, su richiesta degli Stati Uniti, che ne hanno chiesto l’estradizione per sospette violazioni delle sanzioni contorno l’Iran. Meng non è una manager qualsiasi, è la numero due del gruppo, la figlia del fondatore, Ren Zhengfei. Meng è ancora in Canada, non più agli arresti in carcere, ma comunque in attesa che le autorità decidano sulla richiesta di estradizione avanzata dagli Usa. Per ritorsione Pechino arresta diversi manager canadesi, accusandoli di reati vari.
S’innesta un’escalation, la Polonia arresta un rappresentante locale di Huawei, accusandolo di spionaggio. Il dirigente è subito licenziato in tronco dal gruppo che si dice all’oscuro di ogni azione del suo ex dipendente, rinnovando l’appello a non politicizzare la sfida commerciale. Tuttavia il giorno prima un Tribunale cinese aveva condannato a morte un canadese, ritenuto colpevole di traffico di droga. In primo grado era stato condannato a 15 anni. Intanto Huawei rischia di perdere le aste per l’assegnazione delle licenze 5G in Europa.
La posta in gioco
Ren sa bene che il 5G rappresenta la nuova frontiera delle telecomunicazioni e che l’accusa di spionaggio rischia di mettere fuori gioco Huawei in Europa, la regione dove, dopo la Cina, è più forte. Per questo alla conferenza stampa di ieri, Ren assicura: «Non ho mai fatto né mai farò alcunché per danneggiare un altro Paese nel mondo», «non ci sono backdoor nelle nostre forniture tecnologiche». Le backdoor in gergo sono porte d’accesso introdotte nelle tlc per carpire segreti, cioè per compiere atti di spionaggio. Gli esperti dell’Intelligence britannica dicono il contrario e confermano che le reti di tlc Huawei non sono per niente affidabili. Il vecchio Ren ci ha provato a gettare acqua sul fuoco. “Non vedo una stretta connessione tra le mie convinzioni politiche personali e le attività Huawei”. E ancora: amo la Cina ma non ho mai spiato per conto del governo cinese. C’è da credergli?
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