«Se militi e dirigi un partito di centrosinistra che ambisce a unire i riformisti e a superare le frammentazioni del secolo scorso, che mantiene un’ambizione maggioritaria e che nasce per battere il partito personale per antonomasia e poi fondi un partito personale, di centro, determinando una nuova frammentazione, ti devi chiedere se questa scelta non sia una manifestazione ex post di estraneità a quel progetto politico e se le diffidenze non avessero qualche fondamento».
È Andrea Orlando, a sorpresa, e non Nicola Zingaretti, ad aprire la prima Direzione nazionale del Pd del dopo-Renzi. Una relazione in cui il vicesegretario ha indicato quale debba essere la strada del Pd per uscire dall’angolo. Uno schema che si può riassumere in tre concetti: riduzione delle disuguaglianze, svolta ecologista e spiccata vocazione europeista. Ma, al di là dei buoni intenti, ciò che colpisce, nell’inedito teatro del Centro Congressi Cavour a Roma (la grande sala conferenze del Nazareno è al momento inagibile), è il clima di sospensione.
Si percepisce che il passaggio è delicato e decisivo. Lo dice chiaramente Vincenzo De Luca: «Qua ci giochiamo la pelle, le metastasi correntizie possono ucciderci». Sul tavolo, le questioni decisive sono due. Da una parte come affrontare la nuova avventura al governo del Paese e la convergenza con il Movimento 5 Stelle, dall’altra come fronteggiare la scissione.
Matteo Renzi (nonostante da più di un anno abbia sistematicamente disertato tutti gli appuntamenti di partito) è il convitato di pietra. Ancora più lo sono i suoi “colonnelli”, che invece fino all’altro ieri occupavano (quasi militarmente) i primi banchi del parlamentino del Pd, anche quando non erano più maggioranza. Si rivedono Rosy Bindi e Beppe Fioroni. Prendono parola solo i big.
È questo il vero cruccio dei democratici, oggi. Come attutire il colpo dell’uscita dell’ex rottamatore? Orlando lo dice tra le righe (Zingaretti, invece, nelle conclusioni, evita qualsiasi tipo di polemica), ma il piano è già abbastanza strutturato. Derenzizzare il partito e rendere il giochino messo in campo dal senatore di Firenze il più complicato possibile.
Il primo caposaldo è presidiare i territori. L’assillo della segreteria dem non è tanto quello di bloccare la fuoriuscita dei parlamentari, quanto più quello di fermare – per quanto possibile – la diaspora a livello locale. «Stiamo lavorando per fare in modo che chi è indeciso se restare o andare, alla fine resti nel Pd. Ma nel frattempo è meglio che non occupi cariche a livello territoriale». È un modo per far capire che dei renziani rimasti ci si fida, ma solo fino ad un certo punto.
Il secondo paletto riguarda la volontà di togliere la pistola fumante della caduta del governo dalla mani di Renzi. «Finché non facciamo la legge elettorale proporzionale, Matteo può solo abbaiare, ma non mordere», dice un membro della Direzione seduto nel gruppo della maggioranza interna. E, ancora una volta, Orlando lo dice con chiarezza: «Il nostro obiettivo è bilanciare gli effetti della riduzione del numero di parlamentari. Ma nessuno ha detto che dobbiamo impiccarci allo schema del proporzionale». Un modo per dire che la riforma che più di tutte darebbe ossigeno alla nuova creatura renziana non è affatto scontata, tutt’altro.
Infine la riforma del partito. Su questo lo scontro tra le varie anime del Pd è già aperto, quantomeno sul metodo con cui affrontare il tema del rinnovamento. Un rinnovamento che avrà a che fare con i processi che regolano la vita interna del Pd, dagli strumenti decisionali alle forme di partecipazione, dai grandi temi politici alle dinamiche di funzionamento del partito a livello nazionale e locale, fino alle selezione della classe dirigente.
Tra i dirigenti sta crescendo la voglia di affrontare la questione attraverso un grande congresso straordinario ri-fondativo. Un congresso senza primarie, “per tesi”, si sarebbe detto una volta. Un congresso – particolare da non sottovalutare – che andrebbe a rinnovare la composizione dell’assemblea nazionale, che ancora oggi conta al suo interno diversi delegati legati a doppia mandata a Matteo Renzi sui territori.
Ma Lorenzo Guerini, che ha completato la metamorfosi da fedelissimo di Renzi a leader della corrente che conta il numero più alto di parlamentari nel Pd, già avverte: «È il momento del coraggio e delle scelte difficili, ma affrontare ora un congresso straordinario sarebbe imprudente».
Sarà, ma l’indirizzo sembra proprio questo. Anche perché c’è bisogno di una nuova legittimazione da parte della base. Una legittimazione che coinvolge direttamente la nuova esperienza di governo e, soprattutto, il futuro dell’alleanza tra Pd e Cinque Stelle. Un asse a cui molti, nei due partiti, stanno lavorando alacremente. Ma che è anche visto come fumo negli occhi da molti dirigenti, più tra i dem che tra i grillini. Un paradosso? Solo fino a un certo punto, evidentemente.
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