L’accordo raggiunto a Malta sui ricollocamenti è stato salutato con entusiasmo da tutte le forze della maggioranza, e in particolare dal Partito democratico, impegnato a dimostrare che Matteo Salvini «cavalca o inventa problemi», mentre «noi proviamo a risolverli», come ha twittato il segretario Nicola Zingaretti. Più cauto Luigi Di Maio, che ha invitato a fare «attenzione ai facili entusiasmi», sostenendo che i ricollocamenti non sono la soluzione di tutti i problemi, perché rischiano anzi di incentivare le partenze. Niente di strano: i ricollocamenti erano la soluzione che il Pd proponeva sin dai tempi del governo Renzi, quando i cinquestelle dicevano quello che oggi Di Maio ripete a mezza bocca e la Lega urla a squarciagola. E qui sta il problema: nello scontro tra un’opposizione che va alla carica sulle parole d’ordine salviniane e una maggioranza che si difende ripetendole a mezza bocca o addirittura garantendo di voler fare tutto il possibile per realizzarle, ma con garbo e senso della misura, non è difficile pronosticare chi sarà il vincitore.
Presentarsi come quelli che il problema lo risolvono, mentre Salvini lo «cavalca» solamente, rischia di accreditare l’idea che il problema sia esattamente quello che dice Salvini, nei termini in cui lo pone Salvini. Ma se è così, se cioè gli stessi avversari sembrano dare per buona la sua diagnosi, per quale ragione gli elettori non dovrebbero rivolgersi a lui anche per la terapia? Non è un discorso ipotetico, la controprova l’abbiamo già avuta. Alle ultime elezioni il Pd è andato esattamente su questa linea, con un ministro dell’Interno come Marco Minniti che poteva vantarsi di aver fatto crollare gli sbarchi del 70 per cento, grazie ai famigerati accordi con la Libia. E il risultato non è stato certo un trionfo. Sarebbe ovviamente ingiusto e ingeneroso darne la colpa al solo Minniti, ma non si può negare che la campagna elettorale si sia giocata prevalentemente sul terreno dell’immigrazione e della sicurezza.
A queste considerazioni di solito si obietta che il problema non erano – e non sono – i dati, ma la percezione, che se ci pensate è una ben strana obiezione. Se infatti il problema è la realtà, è ragionevole pensare a come cambiare le cose dal punto di vista pratico. Ma se il problema è la percezione, allora sono le percezioni che vanno cambiate, e quelle non si cambiano per decreto, con le scelte di governo, gli accordi e le statistiche, ma con la battaglia politica e culturale, cioè esattamente quella che a sinistra – con pochissime eccezioni – si è deciso di abbandonare. Per non fare il gioco di Salvini, naturalmente. Con il risultato che a quel tavolo Salvini è rimasto l’unico a giocare, e a vincere tutte le partite, di conseguenza.
Nel frattempo si susseguono le denunce sugli orrori dei lager libici. Ogni giorno i giornali riportano notizie, video, reportage e inchieste della magistratura dai particolari sempre più spaventosi, su cosa accade alle persone che la guardia costiera libica, da noi finanziata e addestrata, «riporta indietro». Più di sei mesi fa, per la precisione il 7 marzo 2019, la trasmissione Piazza Pulita ha mostrato alcuni di quei video all’allora ministro dell’Interno Salvini, al suo predecessore Minniti e al segretario del Pd Zingaretti. La replica di Salvini aveva se non altro il pregio della chiarezza: «Manderò il video alle autorità libiche, io faccio il ministro degli Interni in questo paese». Le risposte di Zingaretti e Minniti avevano senza dubbio molti altri pregi, ma non quello della chiarezza, tanto che non saprei riassumerne il senso in nessun modo (e giuro che mi sono sforzato).
Certo è che da allora sono passati sei mesi, al governo ora c’è di nuovo il Pd, ma su quello che accade nei lager libici si continua a far finta di niente. O peggio. In tutte le sue interviste di ieri il presidente Conte ripete che «continueremo a sostenere e a rafforzare l’addestramento dei libici», e al giornalista della Stampa che gli fa notare come in Libia i migranti finiscano in luoghi che le stesse Nazioni Unite hanno definito lager, risponde senza fare una piega: «Ne siamo consapevoli. Parliamo di veri e propri centri di detenzione. Io sono all’Onu anche per questo. Al segretario generale Antonio Guterres chiederò la disponibilità a potenziare gli interventi, anche finanziari, in modo che questi siano davvero centri dove i migranti siano trattati da esseri umani». E per quanto riguarda il rischio che l’accordo sui ricollocamenti incentivi le partenze, chiarisce: «C’è il decreto sicurezza che non dismettiamo». Dunque, rispetto al governo gialloverde, non è identica solo la diagnosi, ma anche la terapia. Una sorta di salvinismo democratico, più gentile e dialogante dell’originale, fondato però sulle stesse premesse. Come si suol dire: se sembra un’anatra, nuota come un’anatra e starnazza come un’anatra, probabilmente è un’anatra. Se l’attuale esecutivo ha lo stesso presidente del Consiglio del governo precedente, rivendica tutte le scelte del governo precedente e persino gli stessi decreti, è ragionevole pensare che non sia molto diverso dal governo precedente. E nessuno ha il minimo dubbio su chi fosse il vero leader del governo precedente, e soprattutto su chi ne raccogliesse i frutti in termini di consenso.
È chiaro che in questa fase il Partito democratico si trova in una posizione difficile, con margini di manovra molto limitati. In politica, a volte, può essere necessario sacrificare i propri principi pur di vincere una battaglia, perduta la quale sarebbero irrimediabilmente perduti anche quei principi. Altre volte, invece, può invece essere necessario dare battaglia, pur sapendo che si verrà sconfitti. E non è sempre facile distinguere i due casi. Ma andare incontro alla sconfitta per difendere l’indifendibile che senso ha?
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