Pubblicato il: 23/09/2019 11:42
Non basta piantare nuovi alberi per mitigare gli effetti del cambiamento climatico: è fondamentale anche proteggere le foreste esistenti, soprattutto quelle più antiche e più ricche di biodiversità, dai danni causati dall’uomo. Per farlo serve una mappa globale che sappia indicare quali sono le foreste intatte, quali quelle oggetto di sfruttamento e quali le nuove piantagioni artificiali.
È l’appello lanciato in un paper pubblicato su Conservation Biology, da Alessandro Chiarucci, dell’Università di Bologna, e Giunluca Piovesan, dell’Università degli Studi della Tuscia.
“Gli enormi incendi che abbiamo visto in queste settimane in Amazzonia e in Siberia sono una pericolosa minaccia per l’equilibrio degli ecosistemi e possono favorire l’accelerazione dei cambiamenti climatici – spiega Chiarucci – L’idea di piantare nuovi alberi per assorbire rapidamente l’eccesso di anidride carbonica nell’atmosfera è una soluzione semplicistica che non tiene conto della complessità degli ecosistemi forestali. Per mantenere l’equilibrio dei processi ecologici che sono alla base della vita sul nostro Pianeta è invece fondamentale garantire la conservazione e la ricostruzione delle foreste naturali“.
Per mettere in campo politiche efficaci di protezione delle foreste a livello globale, spiegano i ricercatori, è essenziale prima di tutto individuare dove sono le foreste e stabilire quale sia la loro estensione nelle varie aree del pianeta. A questo scopo la soluzione oggi più utilizzata è l’analisi delle immagini satellitari: le zone coperte dalle chiome verdi degli alberi, si è pensato, non possono che essere le foreste che stiamo cercando. Ma non è così semplice.
“Un territorio coperto da alberi non sempre è una foresta: una coltivazione di alberi da frutto, per quanto densa possa essere, non è certo una foresta, come non lo è un impianto di alberi finalizzato alla produzione legnosa – dice Chiarucci – Basare l’attività di monitoraggio solamente sull’analisi delle aree coperte da alberi può essere pericoloso perché si rischia di confondere semplici aree produttive con i ben più complessi ecosistemi forestali“.
La proposta degli studiosi è quella di mettere in campo metodologie più sofisticate, in grado di individuare con chiarezza le aree coperte da foreste e, attraverso sistemi di monitoraggio dei livelli di biodiversità, mappare il loro grado di ‘naturalità’: foreste intatte, foreste antiche, foreste controllate dall’uomo e foreste in rewilding, che stanno cioè tornado al loro originario stato selvaggio dopo un periodo di sfruttamento.
“Molti ecosistemi forestali in diverse aree del pianeta sono minacciati dall’intervento dell’uomo – spiega Chiarucci – Per questo motivo, mappare, monitorare e preservare le foreste intatte e le foreste antiche è in questo momento una priorità: il loro ruolo nella conservazione della biodiversità è cruciale per mitigare gli effetti del cambiamento climatico“.
Ruolo che diventa ancora più decisivo se pensiamo che la superficie coperta dalle foreste, quelle vere, a livello globale è in continuo calo, e non potrà che diminuire anche nei prossimi anni. Più che piantare nuovi alberi, allora, i ricercatori suggeriscono di preservare le foreste esistenti e il complesso ecosistema che vive al loro interno, a partire da quelle che oggi sono sfruttate dall’uomo.
“Una certa proporzione delle foreste oggi oggetto di sfruttamento, possibilmente il 20%, andrebbe protetto e destinato a processi di rewilding per far rinascere ecosistemi pienamente funzionali – dice Chiarucci – Le foreste vanno protette e lasciate ai loro processi naturali, per assicurare la persistenza della biodiversità e anche per lasciare alle generazioni future un’immagine di come fosse il nostro pianeta prima della trasformazione profonda avvenuta durante l’Antropocene“.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Conservation Biology con il titolo ‘Need for a global map of forest naturalness for a sustainable future’.
Gli autori sono Alessandro Chiarucci, docente al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, e Gianluca Piovesan, docente al Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali dell’Università degli Studi della Tuscia.
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