Dopo tredici giorni, è terminata ieri pomeriggio nel porto di Haugesund, nel sud-ovest della Norvegia, l’azione di protesta nonviolenta dei sei attivisti di Greenpeace International che dal 31 gennaio, e per quasi 4 mila chilometri, hanno occupato una piattaforma petrolifera della Shell trasportata a bordo di una nave cargo che dovrebbe consentire al colosso petrolifero di sbloccare otto nuovi pozzi nel giacimento di petrolio e gas Penguins North Sea.
Una volta arrivata in porto, le attiviste e gli attivisti sono potuti sbarcare pacificamente dalla piattaforma, senza che la polizia norvegese effettuasse alcun arresto. Prima di concludere la protesta, i manifestanti si sono arrampicati sui 125 metri del boma della piattaforma e hanno aperto un grande striscione diretto a Shell con la scritta: “Basta trivellare. Iniziate a pagare”. Secondo l’organizzazione ambientalista, il colosso dell’oil&gas deve infatti assumersi le sue gravi responsabilità nella crisi climatica e contribuire ai fondi per le perdite e i danni subiti dai Paesi più vulnerabili agli eventi climatici estremi. Solo pochi giorni fa, Shell ha annunciato profitti annuali record, pari a quasi 40 miliardi di dollari.
«Shell potrebbe pensare che questa sia la fine della nostra protesta, ma il mio messaggio all’amministratore delegato Wael Sawan è che questo è solo l’inizio», dichiara Yeb Saño, Direttore Esecutivo di Greenpeace South East Asia, tra gli attivisti che hanno dato supporto in questi giorni a chi occupava la piattaforma, nonché in passato negoziatore principale per le Filippine nei colloqui globali sul clima. «I negoziati sulle perdite e i danni causati dalla crisi climatica si sono finora arenati di fronte alla domanda fondamentale: chi pagherà per i disastri causati dall’industria fossile? È giusto che le compagnie come Shell paghino per la devastazione di cui sono colpevoli. L’intera industria dei combustibili fossili deve smettere di trivellare e iniziare a pagare. In un modo o nell’altro faremo pagare chi inquina».