Pubblicato il: 17/03/2020 16:19
In un rapporto del 2007 sulla salute nel XXI secolo, l’Organizzazione mondiale della sanità, la stessa che pochi giorni ha definito ufficialmente quella del coronavirus una ‘pandemia’, avvertiva che il rischio di epidemie virali cresce in un mondo dove il delicato equilibrio tra uomo e microbi viene alterato da diversi fattori, tra i quali i cambiamenti del clima e degli ecosistemi.
La diffusione di questi nuovi virus, in poche parole, sarebbe l’inevitabile risposta della natura all’assalto dell’uomo, come spiega la virologa Ilaria Capua, che dal 2016 dirige uno dei dipartimenti dell’Emerging Pathogens Institute dell’Università della Florida: “Tre coronavirus in meno di vent’anni rappresentano un forte campanello di allarme. Sono fenomeni legati anche a cambiamenti dell’ecosistema: se l’ambiente viene stravolto, il virus si trova di fronte a ospiti nuovi”.
Lo ricorda Greenpeace, mettendo insieme studi e ricerche sul tema secondo le quali distruggere la natura finisce quasi sempre per avere un impatto sulla nostra salute.
David Quammen, l’autore di “Spillover. L’evoluzione delle pandemie”, saggio che in queste settimane è letteralmente andato a ruba in tutte le librerie italiane, in una intervista a Wired ha elencato le ragioni per cui assisteremo ad altre crisi come questa nel futuro.
Eccole: “i nostri diversi ecosistemi naturali sono pieni di molte specie di animali, piante e altre creature, ognuna delle quali contiene in sé virus unici; molti di questi virus, specialmente quelli presenti nei mammiferi selvatici, possono contagiare gli esseri umani; stiamo invadendo e alterando questi ecosistemi con più decisione che mai, esponendoci dunque ai nuovi virus e quando un virus effettua uno ‘spillover’, un salto di specie da un portatore animale non-umano agli esseri umani, e si adatta alla trasmissione uomo-uomo, beh, quel virus ha vinto la lotteria: ora ha una popolazione di 7.7 miliardi di individui che vivono in alte densità demografiche, viaggiando in lungo e in largo, attraverso cui può diffondersi”.
C’è di più, secondo il direttore della comunicazione di Greenpeace Andrea Pinchera di Greenpeace: lo scioglimento di ghiacci e ghiacciai, ricorda, potrebbe rilasciare virus molto antichi e pericolosi. “Nel gennaio 2020 – ricorda Pinchera – un team di scienziati cinesi e statunitensi ha comunicato di avere rintracciato all’interno di campioni di ghiaccio di 15mila anni fa, prelevati dall’Altopiano tibetano, ben 33 virus, 28 dei quali sconosciuti. Tracce del virus della Spagnola sono state ritrovate congelate in Alaska, mentre frammenti di Dna del vaiolo sono riemersi dal permafrost nella Siberia nord-orientale”.
Proprio il permafrost rappresenta un ambiente perfetto per conservare batteri e virus, almeno fin quando non interviene il riscaldamento globale a liberarli. “E che ciò possa avvenire – continua – lo testimonia un episodio dell’estate del 2016 quando, sempre in Siberia, l’antrace ha ucciso un adolescente e un migliaio di renne, oltre a infettare decine di persone”.
Clima e infezioni viaggiano insieme. A evidenziarne il legame, per esempio, è il “Lancet Countdown Report 2019”, che associa i cambiamenti climatici proprio a un’aumentata diffusione delle patologie infettive: in un pianeta più caldo, virus, batteri, funghi, parassiti potrebbero trovare condizioni ideali per esplodere, diffondersi, ricombinarsi, con un aumento tanto della stagionalità quanto della diffusione geografica di molte malattie.
È un rischio che Greenpeace ha identificato per tempo: già nel “Rapporto Greenpeace sul riscaldamento della Terra” del 1990, l’epidemiologo Andrew Haines, che successivamente sarebbe diventato direttore della London School of Hygiene & Tropical Medicine, avvertiva che tra gli effetti secondari dei cambiamenti climatici “la diffusione dei vettori di malattie dovrebbero essere causa di preoccupazione”.
In poche parole, se per il coronavirus il meccanismo identificato dagli scienziati è quello di un salto di specie innescato dalla promiscuità con animali selvatici, amplificato dalla concentrazione di popolazione nelle megalopoli e trasportato dalla globalizzazione, la crisi climatica potrebbe offrire scenari ancora più pericolosi. Ovvero “il riemergere dai ghiacci dei Poli o dai ghiacciai dell’Himalaya di virus che il loro “spillover” lo hanno effettuato in tempi remoti e che pensavamo di avere debellato per sempre. O, peggio ancora, di patologie che non conosciamo affatto”, sottolinea Pinchera.
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